Verso l’unione delle politiche fiscali e monetarie

Kurtis Garbutt, Flickr, Creative Commons
Kurtis Garbutt, Flickr, Creative Commons

L'espansione dei bilanci delle banche centrali, da circa 2 trilioni nel 2003 a 12 trilioni a fine del 2016, è stata alquanto notevole. Non solo queste hanno acquistato 10 miliardi di dollari di obbligazioni, ma hanno anche abbassato i tassi quasi allo 0%, generando, in alcuni casi, rendimenti negativi. Tutto ciò ha avuto luogo per salvare l’economia finance-based, e di aumentare i prezzi degli asset da cui tale modello dipende. Queste politiche in corso hanno promosso prezzi più alti delle attività, generando una leggera crescita reale.

“Nel processo però, il capitalismo è stato distorto”, afferma Bill Gross, portfolio manager presso Jupiter Asset Management. “Il risparmio, o investimento, è stato scoraggiato da rendimenti troppo bassi per replicare i guadagni di produttività storici; le aziende “zombie” sono state tenute in vita in contrasto con la "distruzione creativa" di Schumpeter; il debito ha continuato ad aumentare in rapporto al PIL; il sistema finanziario non è stato ripulito e settato in conformità con un equilibrio, in cui rischio e rendimento sono sullo stesso piano; il disequilibrio ha quindi sostituito l’equilibrio stesso, anche se, finché ci sarà volatilità, sarà difficile riconoscere questo fantasma economico”.

L’esperto sostiene che al fine di controllare la volatilità, e mantenere un livello sotto i prezzi degli asset, le banche centrali potrebbero essere intrappolate in un interminabile ciclo di Quantitative Easing, al fine di controllare il corretto funzionamento del sistema globale. Apparentemente, il ritiro dello stimolo, come è accaduto con la Fed negli ultimi anni, deve essere sostituito da un maggiore flusso di acquisti di asset (azioni e obbligazioni) da altre banche centrali. “Oggi, l’investitore deve sapere che è questo denaro che mantiene il funzionamento del sistema. Senza questo, sia i mercati obbligazionari che quelli azionari di tutto il mondo, darebbero vita a tensioni di proporzioni significative. Vorrei azzardare un'ipotesi, ovvero che senza Quantitative Easing da parte della BCE e della BOJ, i buoni del Tesoro statunitensi a 10 anni salirebbero piuttosto rapidamente al 3,5%, e l'economia a stelle e striscie potrebbe cadere in una recessione”.

“Concettualmente, a prima vista, non c’è nulla di sbagliato nel prolungamento del QE. Gli interessi maturati sui 12 trilioni di dollari sono già stati smistati dalle banche centrali, ancora una volta verso le autorità fiscali dei governi. Ma questo trasferimento di denaro, in sostanza, significa che le politiche monetarie e fiscali si sono unite, e che il governo, non il settore privato, finanzia la propria spesa. Ad un determinato margine di espansione, ciò permette al settore privato di auto finanziarsi, cercando di valutare attentamente la distinzione tra rischio e rendimento. Negli Stati Uniti per esempio, vengono impiegati 600 miliardi di dollari nel riacquisto di azioni di società, mentre prima, gli investimenti nell'economia reale sarebbero stati una scelta decisamente più redditizia. Inoltre, i singoli risparmiatori, i fondi pensione e le compagnie assicurative, sono ora impossibilitati dall’ottenere tassi di rendimento necessari per mantenere una solvibilità a lungo termine”, conclude Gross.

Stephen Mitchell, head of Strategy Global Equities di Jupiter AM, sostiene che le politiche fiscali raccolgono il testimone delle politiche monetarie ormai in esaurimento. “Nei prossimi dodici mesi, probabilmente assisteremo a un maggiore impiego di politiche fiscali volte a stimolare la crescita, al passaggio dalla deflazione all’inflazione con conseguente indebolimento dei mercati obbligazionari, e una modesta ripresa dei mercati emergenti quando cominceranno a sentirsi gli effetti dei tagli ai tassi di interesse. All’inizio del 2016, ci siamo chiesti se la politica fiscale potesse offrire “un po’ di supporto alla crescita” e ora abbiamo una risposta. Il Canada è stato uno dei primi Paesi ad intraprendere un percorso del genere quest’anno, introducendo un importante piano di spesa in infrastrutture nel proprio bilancio di marzo. La Corea del Sud è stata rapida a seguire l’esempio canadese, ma l’elezione di Donald Trump potrebbe essere la vera svolta. Se Trump portasse a compimento alcuni impegni che si è assunto in campagna elettorale e che gli hanno consentito di vincere le elezioni, ci si potrebbe aspettare ambiziosi programmi di riforma fiscale e di spesa in infrastrutture negli Stati Uniti”.

Infine Dave Lafferty, chief Market strategist di Natixis Global Asset Management, fornisce qualche considerazione sulla divergenza tra le banche centrali e sul rafforzamento del dollaro statunitense. “Dato che occupazione e inflazione continuano a crescere, sembrano non esserci più ostacoli per una Federal Open Market Committee (FOMC) sotto gli occhi della stampa. Il consenso per un dollaro più forte era alquanto esagerato. Le divergenze delle banche centrali sono state evidenti per quasi tre anni, e sono state in gran parte già scontate dal mercato, come si evince dal rafforzamento del 25% del dollaro americano, dalla metà del 2014. Contrariamente alla dichiarazione di Draghi, la BCE ha attuato il tapering, ed esistono tutt’ora vincoli di formato per un QE corporate. La BOJ sta anche rivalutando la sua politica, e se l’agenda di Trump dovesse in qualche modo entrare in una fase di stallo, la divergenza tra la Fed e la BCE, o la BOJ, non sarebbe poi così grande, visto che ciò è già stato prezzato dai mercati, come indicato dalla leggerezza di inizio anno del dollaro statunitense”.