TINA effect, un chiaro elemento di rischio nel lungo termine

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Un ipotetico portafoglio bilanciato dovrebbe essere investito in azioni almeno in linea con l’esposizione di medio termine, privilegiando l’area emergente e quella europea. Come muoversi per far fronte a una fase turbolenta come l’attuale? Lo abbiamo chiesto a Emilio Franco, vice direttore generale e responsabile investimenti di UBI Pramerica SGR.

I fondi obbligazionari globali hanno visto nuove forti sottoscrizioni, l’appetito per gli asset emergenti ha iniziato a incrinarsi e gli azionari europei hanno aggiornato il record negativo. Cosa sta succedendo?

I mercati si trovano oggi a un bivio importante: l’espansione monetaria (all’inizio coordinata a livello globale) iniziata all’indomani della Grande Recessione è proseguita, fino ad arrivare all’implementazione di misure non ortodosse, che hanno compresso i rendimenti su livelli mai toccati storicamente. A fatica, fra “stop and go” legati alle turbolenze dei mercati e alla Brexit, la Federal Reserve è la prima banca centrale tra i Paesi sviluppati a tentare di iniziare una normalizzazione della politica monetaria. Sappiamo che i tassi di equilibrio di lungo termine saranno assai contenuti, data la bassa crescita e inflazione, ma è importante per la banca centrale americana avere spazio in futuro per fronteggiare un’eventuale recessione in Usa con una riduzione dei Fed Funds, come sempre accaduto. Per questo, intanto, li vorrebbe alzare. Il mercato sconta però un percorso della Yellen assai contenuto per i prossimi anni. Non è prezzato interamente neanche un rialzo per il 2016. La comunicazione da Washington è diventata via via meno accomodante (in termini relativi) e la dipendenza dai dati macro della Fed potrebbe generare volatilità sui mercati e revisione delle aspettative degli operatori. È chiaro che un rialzo non modifica significativamente la liquidità disponibile a livello globale, ma insiste su un quadro reso vulnerabile dagli eccessi e può far temere agli investitori che si sia entrati in una nuova fase, in cui la Fed diventa meno attiva nel sostenere, indirettamente, la fragile ripresa economica globale. Le altre principali banche centrali dei Paesi sviluppati (Bce, BoE e BoJ) saranno ad ogni modo impegnate a sostenere aree del mondo ancora non del tutto esenti da rischi a oltre otto anni dalla crisi del 2008, ma i vincoli di bilancio in termini di indebitamento complessivo di questi paesi e l’incertezza ancora presente dopo il voto sulla Brexit sembrerebbero limitare le ulteriori possibilità di manovra oltre certi limiti, anche se le voci su un possibile coinvolgimento della politica fiscale (c.d. helicopter money) si fanno sempre più insistenti (soprattutto in Giappone).

In un contesto come quello attuale, caratterizzato da elevata avversione al rischio e prono alla sovra reazione alle notizie negative, la divergenza delle politiche monetarie potrebbe ingenerare timori sulla  sostenibilità della ripresa?

Sì, senza il sostegno delle misure monetarie eccezionalmente espansive avviate anni fa. Ci sembra ad ogni modo doveroso sottolineare come la ripresa del mercato del lavoro negli Stati Uniti sia solida e a oggi non ci siano segnali di un’imminente contrazione dell’economia, nonostante gli ultimi dati macroeconomici abbiano segnalato un rallentamento anche nel settore dei servizi. Sui mercati emergenti si vedono oggi nuovi flussi in ingresso dopo la profonda correzione, accompagnata da pesanti svalutazioni valutarie, del 2013. Proprio quest’area è in genere la più interessata da un restringimento delle condizioni finanziarie negli Usa ma ci sembra di poter sostenere che i fondamentali siano in condizioni decisamente migliori rispetto ad analoghi episodi del passato. La zona euro rimane l’area più fragile dal punto di vista delle decisioni di riforme di riassetto istituzionale, cui va a sovrapporsi una delicata situazione del sistema finanziario, con l’anello più debole rappresentato dal fardello dei Npl delle banche, in particolar modo italiane.

Come ci si prepara ai portafogli dell'autunno?

Un portafoglio di un investitore bilanciato dovrebbe essere impostato in maniera adeguata a un contesto di tassi di interessi sugli asset privi di rischio prossimi allo zero o negativi, di un supporto esplicito della BCE al mondo obbligazionario sia sovereign sia corporate e di un mercato azionario che, seppur su livelli storicamente elevati (come quello americano) rimane ancora da preferire in termini relativi rispetto a quello obbligazionario. I rischi principali da qui a fine anno sembrerebbero essere collegati in primis alle incertezze sulle mosse di politica monetaria (in particolare della Fed) e ai risultati elettorali sempre negli Usa. Da monitare con attenzione anche l’evolvere delle vicende bancarie italiane e il risultato del referendum costituzionale previsto per l’ultima parte dell’anno. Le indagini sul posizionamento degli investitori mostrano che, in media, i portafogli sono ancora relativamente scarichi di azionario (i.e. rally post Brexit poco partecipato dagli investitori), mentre la ricerca di rendimento ha spinto molti investitori ad “affollare” il mercato del credito. Tale fenomeno è stato battezzato “TINA effect” (There Is No Alternative) e rappresenta un chiaro elemento di rischio nel lungo termine.

Quale asset allocation si sente di raccomandare?

Un ipotetico portafoglio bilanciato (con un benchmark di 50% azioni e 50% obbligazioni) dovrebbe essere investito in azioni almeno in linea con l’esposizione di medio termine, privilegiando l’area emergente e quella europea. Il 30% del portafoglio dovrebbe poi essere esposto al mondo corporate, sopratutto US investment Grade e HY della zona Euro (in grado di offrire rendimenti compresi tra il 3% e il 4%). Le correlazioni tra le varie asset classes si sono ridotte nel corso delle ultime settimane e questo, unitamente ad una volatilità storicamente su livelli bassi, dovrebbe consentire di incrementare i benefici della diversificazione. Il restante 20% del portafoglio potrebbe esser investito nella componente obbligazionaria, sia della periferia europea (Italia) che di quella internazionale, in particolar modo US Treasury, come potenziale hedge di eventuali momenti di stress di mercato. Un incremento della volatilità di mercato dovuto a un atteggiamento meno accomodante della Fed potrebbe invece esser protetto da una esposizione più elevata allo Yen Giapponese, tradizionale valuta rifugio in caso di situazioni risk-off di mercato.

Potrebbe essere il rischio chiave dell’autunno uno shock sul mercato del fixed income, dati i flussi euforici verso asset legati ad aspettative di tassi a zero?

Il mondo dei tassi “core” governativi viaggia su livelli di valutazione assai ricchi (i tassi sono troppo bassi rispetto a quello che dovrebbero essere), che non hanno precedenti storici. Intere curve dei rendimenti fino a 7 o 10 anni offrono rendimenti negativi. L’azione delle banche centrali combinata con fondamentali di crescita e inflazione basse hanno creato tale situazione, potenzialmente pericolosa. Una riaccelerazione del tasso di sviluppo economico o una ripartenza della crescita del livello dei prezzi potrebbero innescare risalite dei rendimenti, anche disordinate. A oggi, i rischi sembrano essere legati principalmente alle prossime mosse della Fed, che il mercato sconta assai benigna e che potrebbe invece sorprendere, data la sua chiara volontà, permettendo i dati macroeconomici, di riportare il tasso di politica monetaria in un’area comfort abilmente lontana da zero.