Le verità nascoste dietro la lunga crisi dell'Italia

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Opinione a cura di Roberto Russo, amministratore delegato di Assiteca SIM.

Il popolo dei risparmiatori italiani, dopo avere affrontato le crisi finanziarie del 2008 e del 2011, negli ultimi nove mesi è stato nuovamente messo a dura prova dall’attacco speculativo che ha colpito il mercato azionario e i titoli di Stato in seguito all’insediamento del nuovo Governo, nato da una maggioranza costituita da due partiti che in campagna elettorale si erano presentati come forze politiche contrapposte. La tensione è stata acuita dal progressivo deteriorarsi del clima di fiducia degli investitori a livello globale, culminato in un drammatico mese di dicembre – il peggiore dal 1930 per Wall Street – caratterizzato dal crollo delle principali Borse mondiali.

Il 2018 è stato il peggiore anno dell’ultimo decennio per l’industria del risparmio gestito, in quanto si è realizzato il simultaneo ribasso di azioni, obbligazioni, petrolio e persino dell’oro, considerato il bene rifugio per eccellenza; tale congiuntura ha di fatto impedito ai gestori di intraprendere qualsiasi possibile strategia difensiva sui portafogli. Sotto il profilo dell’economia reale dal 2008 al 2013 in Italia abbiamo vissuto una lunga crisi che ha provocato una contrazione del PIL di circa una dozzina di punti percentuali, la metà dei quali è stata recuperata dal 2013 in poi. Venendo ai giorni d’oggi, dopo quattordici trimestri consecutivi di crescita, le stime preliminari dell’ISTAT sullo stato  dell’economia italiana nel quarto trimestre del 2018 hanno evidenziato che il PIL si è contratto dello 0,2%, facendo seguito alla riduzione dello 0,1% già registrata nel trimestre precedente. La contrazione del PIL per due trimestri consecutivi, in base a una convenzione universalmente accettata, porta il Paese in “recessione tecnica”, una condizione che potrebbe sfociare in una recessione vera e propria, ovvero in un periodo in cui si registrano livelli di attività produttiva bassi, un aumento della disoccupazione, una riduzione della domanda di credito da parte delle imprese e un rallentamento del tasso di in azione causato dalla diminuzione della domanda di beni e servizi da parte dei consumatori. Nonostante le brutte notizie sul fronte economico e finanziario sopra elencate, va sottolineato con una certa sorpresa che negli ultimi dieci anni le famiglie italiane hanno raddoppiato i propri risparmi, rispettando un trend che li vede mettere da parte circa il 10% all’anno del loro reddito reale.

In base a un’indagine economica condotta a livello mondiale da Eurostat, la ricchezza delle famiglie italiane nel 2018 è pari a 4.168 miliardi di euro, ovvero al 181% del debito pubblico e al 450% dei debiti in capo alle famiglie stesse, quanti cabili in circa 930 milioni di euro. Circa la metà dello stock di risparmio privato è affidato all’industria del risparmio gestito, una buona porzione è rappresentata da immobili, mentre la maggior parte dei debiti si traduce spesso in mutui e finanziamenti per l’acquisto della casa. In relazione al Prodotto Interno Lordo, le famiglie italiane possiedono attivi per circa il 248% del PIL, mentre i debiti raggiungono appena il 55% di tale grandezza.

L’Italia è il decimo Paese al mondo in termini di stock di ricchezza privata e, cosa decisamente più importante, presenta un tasso di solidità patrimoniale più elevato rispetto a nazioni che godono di una reputazione migliore da parte delle agenzie di rating, quali ad esempio Gran Bretagna e Germania. Se consideriamo infatti il rapporto tra attività detenute e debiti per misurare il grado di copertura delle passività delle famiglie, ovvero la capacità di coprire i debiti attraverso lo stock di ricchezza detenuto, notiamo che tale rapporto è pari a 4,4 per le famiglie italiane, a 3,5 per le famiglie britanniche e a 3,4 per quelle tedesche. Sul fronte delle aziende in Italia nei primi nove mesi del 2018 si sono registrate 626 operazioni di fusione/acquisizione (+10% rispetto alle 567 del 2017), per un controvalore complessivo di 38 miliardi di euro (+40% rispetto ai 27 miliardi del 2017), un livello record dal periodo pre-crisi del 2008. Gli investitori esteri hanno finalizzato circa 204 operazioni nei primi nove mesi del 2018, per un controvalore di 12,5 miliardi di euro, con Stati Uniti (54 operazioni), Francia (28) e Gran Bretagna (27) in testa alla lista dei Paesi “predatori”.

Dall’analisi delle grandezze sopra esposte emerge dunque che l’Italia è un paese economicamente e socialmente molto diverso da come ce lo raccontiamo da anni: non è per nulla povero, anzi è molto ricco, anche se la ricchezza è distribuita in modo disomogeneo sia dal punto di vista sociale che geografico e ultimamente cresce poco e male. Il rallentamento economico del Paese nell’ultimo decennio è stato causato principalmente da due fattori: sul fronte comunitario l’Unione Europea a trazione tedesca ha cavalcato le crisi del 2008 e del 2011 e ha utilizzato l’arma del bilancio pubblico come mezzo per imporre ottuse politiche a governi inermi che hanno messo in ginocchio le economie dei principali Stati europei a vantaggio della Germania, determinando di fatto la nascita di un’Europa a due velocità; sul fronte interno un eccesso di forme di protezione della ricchezza accumulata, tra cui il risparmio privato e la “rendita elettorale” della spesa pubblica, ha fortemente penalizzato la produzione di reddito da lavoro a vantaggio delle rendite patrimoniali.

Ciò nonostante, l’Italia è tutt’ora la decima nazione più ricca del mondo e, che si voglia credere o no, è tra i Paesi più solidi in assoluto sotto il profilo patrimoniale; ad esempio il solo fatto che la ricchezza privata delle famiglie italiane rappresenti quasi il doppio del debito pubblico dovrebbe rasserenare il popolo dei risparmiatori - oltre che le agenzie di rating e i burocrati di Bruxelles - circa il grado di solvibilità dello Stato italiano e quindi circa la capacità di rimborsare i titoli di Stato ai rispettivi detentori.

Non è dunque giustificato l’attuale differenziale positivo di rendimento (spread) tra titoli di Stato italiani, tedeschi, spagnoli, francesi e addirittura portoghesi, come non lo era nel 2011; eppure l’emotività continua a creare brutti scherzi ai risparmiatori, che nel secondo semestre del 2018 sono ricaduti nella trappola della speculazione. La nuova frontiera della comunicazione globale, che vede nei “messaggi lampo” pubblicati sui social network (Twitter, Facebook, Instagram, ecc.) la forma più efficace di manipolazione del pensiero di massa, ostacola i meccanismi di riflessione degli investitori e alimenta la speculazione all’interno di mercati finanziari, i cui effetti vengono ulteriormente amplificati dalla presenza di sistemi di trading guidati da algoritmi e da intelligenze artificiali che spostano miliardi di dollari in pochi secondi. Il nuovo Governo “populista”, figlio degli errori della classe politica dell’ultimo ventennio, ha costruito e ottenuto il consenso sui temi della sicurezza interna e della sottomissione dei precedenti governi alle regole comunitarie che hanno reso impossibile l’adozione di politiche economiche espansive nel momento di maggior necessità e hanno determinato l’inasprimento della pressione scale, provocando un drammatico effetto negativo a cascata sul PIL; tuttavia, una volta giunto al potere, lo stesso Governo ha continuato a utilizzare la leva emotiva dell’incipiente povertà dei cittadini e dello scippo di condizioni e status economici pregressi, proponendo come provvedimenti “innovativi” la pensione per tutti a 62/63 anni e lo stipendio di Stato a chi non ha un lavoro. In definitiva, è stata nuovamente utilizzata la “rendita elettorale” della spesa pubblica e per l’ennesima volta si è persa l’occasione di ridurre i privilegi dei detentori di patrimoni a vantaggio dei produttori di reddito.

Crescita economica debole, ricchezza privata elevata, solidità patrimoniale delle famiglie molto elevata, classe politica sempre più autoreferenziale: di fronte a queste diverse variabili, quale deve essere il giusto atteggiamento da prendere sui mercati finanziari per “cavalcare la crisi”? L’atteggiamento corretto da tenere sui mercati finanziari è innanzitutto quello di analizzare con molta attenzione lo scenario macroeconomico globale. La guerra sui dazi tra Stati Uniti e Cina, la debolezza strutturale dei governi europei che hanno guidato il Vecchio Continente nell’ultimo ventennio con la ne dell’era Merkel in Germania, il difficile percorso di uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, il crollo di consensi di Macron in Francia sotto i colpi dei “gilet gialli”, il distacco del Governo italiano da Bruxelles e dalle principali potenze europee rappresentano elementi di criticità che sicuramente hanno fortemente contribuito ad alimentare il clima di forte tensione all’interno dei mercati finanziari. Tuttavia l’analisi non può prescindere dallo scenario macroeconomico mondiale, caratterizzato tutt’ora da una crescita dell’economia globale del 3,7%, dal buono stato di salute delle economie trainanti quali Stati Uniti, Cina e India e, nonostante i focolai politici, dalla tenuta di Eurolandia.

È inoltre plausibile attendersi che alcuni dei fattori di incertezza sopra elencati sotto il profilo macroeconomico possano spingere le principali banche centrali mondiali, con la Federal Reserve in prima linea, a rivedere le tempistiche di adozione di politiche monetarie restrittive favorendo un graduale ritorno degli investitori sui mercati azionari, anche alla luce delle notevoli opportunità di acquisto che attualmente si presentano sui principali listini in seguito alle recenti forti correzioni.

Passando all’analisi di alcuni semplici dati oggettivi riferiti al nostro Paese, negli ultimi 12 anni a fronte di una perdita di circa 6 punti percentuali del PIL italiano, l’indice borsistico Comit generale (rappresentativo di tutti i settori merceologici delle aziende quotate) ha perso circa la metà del suo valore e oggi è sugli stessi livelli di dieci anni fa. In sintesi, il rischio peggiore per un investitore è quello di concentrare la sua attenzione su un orizzonte di analisi limitato, basato esclusivamente su dinamiche di breve termine e su fattori di natura psicologica, trascurando invece la globalità delle informazioni: l’analisi della congiuntura economica da un lato, dalla quale emergono alcuni elementi di criticità all’interno di uno scenario complessivo positivo, e dall’altro lo stato di ottima salute di molte aziende recentemente colpite dal crollo generalizzato delle borse mondiali devono spostare l’attenzione degli investitori sui risultati reddituali e patrimoniali delle società quotate e sull’allargamento del differenziale tra prezzo e valore intrinseco dei titoli oggetto di investimento. In definitiva, l’elevata ricchezza privata delle famiglie italiane e la corrispondente solidità patrimoniale delle stesse rappresentano l’altra faccia della medaglia dell’ingente flusso di investimenti stranieri che si sta riversando in modo crescente nell’ultimo decennio sulle aziende del “made in Italy”, dove va evidenziato il contributo sempre più rilevante delle piccole e medie imprese al mercato nazionale delle fusioni e acquisizioni, risultato di un ricambio generazionale importante nel tessuto imprenditoriale italiano e della comprensione delle dinamiche di mercato globale. Se due più due fa quattro, il mercato borsistico del decimo Paese più ricco al mondo, il cui valore si è di fatto dimezzato negli ultimi 12 anni, rappresenta un territorio ideale di conquista per gli investitori che, invece di subire il populismo imperante che fa leva sullo stato emotivo di ansia e di angoscia proveniente dalla comunicazione “lampo” dei social network, hanno la possibilità di sfruttare le fluttuazioni di breve termine dei prezzi per acquistare aziende eccellenti a prezzi scontati con l’obiettivo di costruire portafogli in grado di generare valore nel lungo periodo.