La crescita delle gestioni indicizzate può innescare la prossima fase ribassista dei mercati?

Simone Rosti, Country Head Italy, Vanguard
Simone Rosti, Country Head Italy, Vanguard

Contributo a cura di Simone Rosti, responsabile per l’Italia di Vanguard.

Dopo una fase rialzista dei mercati azionari durata oltre un decennio, la recente volatilità dei mercati ha reso gli investitori sempre più nervosi. Di fronte all’incertezza sui tassi di interesse, alle accresciute tensioni commerciali e al confuso percorso della Brexit, molti operatori sono convinti che vi siano molte condizioni per un imminente e brusco calo dei mercati. Alcuni ritengono che la prossima fase ribassista potrà essere innescata dalla crescita delle gestioni indicizzate.

A nostro avviso, la crescente popolarità dei fondi indice e degli ETF rappresenta uno dei trend più positivi e profondi degli ultimi 40 anni per gli investitori. Questa crescita li ha però resi un facile bersaglio da parte di alcuni operatori che cercano di imputare loro le responsabilità delle correzioni dei mercati. Ciò è sintomatico di un fraintendimento sull’effettivo funzionamento dei mercati finanziari e degli strumenti indicizzati.

Non pretendiamo di conoscere tutte le cause che determineranno la prossima fase ribassista dei mercati. Ma da queste possiamo sicuramente escludere gli strumenti indicizzati. E ciò per i seguenti tre motivi.

Le fasi ribassiste dei mercati esistono da molto più tempo rispetto alla comparsa dei primi fondi indicizzati

La crisi del 1929 si è verificata 40 anni prima del lancio del primo fondo indicizzato, avvenuto a metà degli anni ’70. Il crollo del ’29, come quasi tutte le altre grandi crisi di mercato che si sono verificate successivamente, è stato causato dalla combinazione di un fattore negativo (come per esempio uno shock macroeconomico o lo scoppio di una bolla speculativa) e il conseguente panico degli investitori che determinano le forti vendite.

Inoltre, gli investimenti indicizzati costituiscono tuttora un piccolo segmento delle attività di mercato a livello complessivo ed un segmento ancora più piccolo del volume degli scambi. Basti considerare come il volume di negoziazione dei fondi indice che investono sul mercato azionario statunitense rappresenti meno del 5% del volume complessivo delle negoziazioni in borsa negli Stati Uniti.

Gli investitori preferiscono mantenere le proprie posizioni sugli investimenti indicizzati durante le fasi volatili di mercato

Non esiste alcuna prova relativa all’argomentazione secondo cui gli investitori si affrettino a liquidare le posizioni sugli investimenti indicizzati al primo segnale di flessione dei mercati. Durante le fasi orso del 2000-2002 e 2008-2009, gli investitori non hanno venduto le loro posizioni in fondi indicizzati. Al contrario, gli investimenti indicizzati hanno registrato afflussi significativi, in ragione del loro basso costo e dell’ampia diversificazione. È comunque probabile che in questi periodi la crescita dell'indicizzazione abbia rappresentato una tendenza strutturale. Nel corso degli anni, un numero crescente di investitori sceglie i fondi indicizzati e gli ETF in una logica buy-and-hold, quindi con un orizzonte di investimento a lungo termine.

Gli ETF non sono un fattore di volatilità del mercato

Con l'aumento della popolarità degli strumenti indicizzati, molti investitori hanno scelto di utilizzare in particolare gli Exchange Traded Fund. Questo ci porta al terzo motivo. Alcuni esperti sostengono che gli ETF siano utilizzati prevalentemente per fare trading, alimentando la volatilità dei prezzi. Tuttavia, come per i fondi indice, anche gli ETF rappresentano una piccola parte degli asset globali, pari a circa il 13% (dato Morningstar a fine 2017). Considerato anche il modo in cui avviene il trading sugli ETF, la maggior parte degli scambi che hanno per oggetto questi strumenti non impatta direttamente sui prezzi delle attività sottostanti. Le analisi condotte da Vanguard dimostrano come per ogni euro scambiato giornalmente in Borsa sugli ETF azionari, meno di 25 centesimi risultano in transazioni sul mercato primario. In altre parole, più del 75% del trading degli ETF non conduce all’acquisto o alla vendita delle attività sottostanti all’indice a cui è agganciato l’ETF.