Investire in titoli di Stato con scadenza a 10 anni è rischioso

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Il referendum costituzionale, allo stato attuale, è percepito dagli organi di informazione e da una parte dei cittadini come un test sulla fiducia all’attuale governo e quindi sulla futura stabilità politica del nostro paese, quasi come se fosse in gioco una partita simile al referendum sulla Brexit. “A mio parere le reazioni negative sui mercati finanziari potrebbero essere di natura emotiva e di brevissimo termine in quanto, ragionando in modo semplice e razionale, il referendum di fatto non avrà serie implicazioni né di natura economica né politica in quanto il governo Renzi rimarrà in carica indipendentemente dall’esito del voto. Infatti, anche nella remota ipotesi di dimissioni del premier in caso di vittoria del no, il presidente Mattarella non avrebbe altra scelta che proporre un governo Renzi bis”, chiarisce Roberto Russo, amministratore delegato di Assiteca SIM.

Il tasso governativo decennale italiano è oggi vicino all’1,2%, un rendimento annuo vicino ai minimi storici ma tra i più elevati all’interno dei Paesi periferici europei. In termini reali, la maggior parte dei titoli di Stato italiani esprime oggi rendimenti negativi, per cui la ricerca di ritorni positivi spinge inevitabilmente l’orizzonte dei risparmiatori sulle scadenze lunghe a causa della mancanza di alternative all’interno del panorama europeo. Commenta il manager: “questo scenario, chiaramente condizionato dalle azioni di politica monetaria espansiva della BCE volte a fronteggiare la stagnazione economica e i conseguenti rischi di deflazione, rende a mio parere l’investimento in titoli governativi con scadenze superiori ai 10 anni molto rischioso, a meno che non sia effettuato allo scopo di sfruttare movimenti di breve termine come, ad esempio, l’eventuale restringimento dello spread che potrebbe verificarsi in caso di vittoria del sì”.

Intanto a inizio agosto l’agenzia di rating canadese Dbrs ha posto il rating dell’Italia sotto esame con implicazioni negative. Un declassamento finirebbe per aumentare il costo di rifinanziamento delle banche, aggravando una situazione già di per sé difficile. Afferma Russo: “la crisi di fiducia, che ha nuovamente colpito il settore finanziario dopo il salvataggio disordinato delle quattro banche territoriali avvenuto lo scorso mese di novembre, ha determinato un clamoroso crollo delle quotazioni dei principali istituti di credito nonostante gli stessi stiano realizzando con regolarità da oltre un anno risultati reddituali positivi. La crisi è stata acuita dall’esito degli stress test dello scorso mese di luglio con la surreale bocciatura di MPS, banca che ha realizzato un utile netto di 300 milioni di euro nel primo semestre del 2016 e la promozione di Deutsche Bank, banca con un attivo patrimoniale di 1.800 miliardi di euro di cui 600 miliardi in strumenti derivati non soggetti alla verifica dell’autorità di vigilanza e un patrimonio netto tangibile di appena 55 miliardi di euro.

Il clima di panico spesso è ulteriormente alimentato dai giudizi delle agenzie di rating che, tanto per ricordarne una, hanno declassato il nostro debito pubblico nel 2012 a un gradino dal livello “spazzatura” alla vigilia di uno dei movimenti rialzisti tra i più eclatanti della storia dei nostri titoli di Stato che, da allora, hanno realizzato performance a doppia cifra su tutte le scadenze della curva”. Un portafoglio adatto a questi tempi, secondo l’ad, è dunque così composto: “il 70% di obbligazioni corporate bancarie e industriali dell’area euro con scadenze non superiori a 5 anni, un 20% di azioni del comparto industriale delle aree euro e Stati Uniti e infine un 10% in oro, in quest’ultimo caso in un’ottica di investimento perpetuo per chi ama il concetto di bene rifugio, indipendentemente dallo scenario economico sottostante”.