Il mondo nel clou della 'Trade war'

Morongiu
EI Sturdza

Commento a cura di Paolo Marongiu, responsabile delle Gestioni di Sofia.

Donald Trump ha annunciato dazi per circa 50-60 miliardi di dollari sulle importazioni cinesi, aggiungendo che questo intervento potrebbe essere il “primo di molti”. Il Presidente ha ordinato al suo apparato di proporre una lista dei prodotti e dei relativi dazi entro 15 giorni, dopo di che si aprirà una fase di possibile revisione e discussione (30 giorni) al termine della quale verrà definito con esattezza il perimetro del provvedimento. Al contempo, alcuni tra i maggiori partner commerciali americani (Unione Europea, Brasile, Corea del Sud) sono stati esentati dai dazi annunciati di recente su acciaio e alluminio.

La prima risposta cinese non si è fatta attendere e si è concentrata su alcuni prodotti agricoli esportati dagli Stati Uniti, quasi a voler colpire in modo molto diretto – e più circostanziato rispetto alla delibera di Trump – il cuore pulsante dell’America, la base elettorale che ha supportato il cambio di rotta di novembre 2016.

Il mondo si trova ora nel clou della cosiddetta 'Trade war', il pericolo numero uno per un ciclo economico che già si trova nella sua fase 'tarda' (o 'Late Cycle' come più volte detto nei nostri report), a questo punto su un piano pericolosamente inclinato verso il più temibile 'End Cycle'. Ciò non tanto per gli effetti diretti dei provvedimenti, dei quali peraltro si ignora la portata esatta, quanto piuttosto per un diffuso sentimento di incertezza e sfiducia verso la politica americana. Trump, con la marcia indietro nei confronti dei partner commerciali su acciaio e alluminio, rinnega l’assunto di base dell’intervento ('National Security', si era detto) svelando in modo molto chiaro la natura anti-cinese della sua decisione, senza contare che il fatto di evocare la 'National Security' invano pone seri problemi di credibilità.

Il fatto di arrivare al termine dei sei mesi di investigazioni e al giorno dell’annuncio senza una lista dettagliata né un perimetro chiaro dell’intervento rende a dir poco fumosa la politica statunitense e – in ultima analisi – può alimentare un clima di diffuso scetticismo nei confronti delle potenzialità americane e dunque globali. Realizzare in pratica ciò che Trump ha annunciato ieri può inoltre essere problematico, in quanto la maggior parte delle importazioni in ambito tecnologico che l’amministrazione Usa intende limitare sono prodotte al di fuori della Cina o addirittura andrebbero a impattare aziende americane (in via diretta e tramite i rispettivi 'Contractors'). È difficile intervenire con i dazi in questo ambito senza essere autolesionisti.

C’è un problema di credibilità (è stata evocata a sproposito la sicurezza nazionale), c’è un problema di fattibilità, si alimenta l’incertezza e dunque la volatilità e il premio al rischio che viene richiesto dall’investitore equity per mantenere il suo denaro nell’azionario, tutto ciò al decimo anno di rialzo e con valutazioni di certo non a buon mercato. Quando il premio al rischio richiesto dagli investitori aumenta, le valutazioni devono necessariamente adattarsi su livelli più bassi e quando ciò accade sul mercato americano è difficile che il resto del mondo equity si comporti in modo totalmente divergente: in particolare, per l’Europa è statisticamente molto raro vedere una sovraperformance quando il mondo azionario è in marcata correzione.

Quali possono essere gli impatti sugli investimenti azionari e sulle strategie? Come abbiamo visto nel caso di acciaio e alluminio, Trump è in grado di fare marcia indietro, non bisogna ritenere per forza di cose che quanto annunciato ieri abbia necessariamente un seguito in linea con l’annuncio. Potrebbe trattarsi di un modo rozzo e poco coordinato di mettere in agenda il tema di un 'ribilanciamento globale' cercando di 'sparare alto' in prima battuta per arrivare poi a una sorta di 'deal'. La risposta cinese per il momento – pur nella sua fermezza e furbizia – va nella direzione della maggior stabilità possibile: non è interesse di nessuno creare il caos totale in questa fase.

In un mondo che cresce – per quanto non possa più battere le stime in modo sistematico – e in cui l’inflazione è ampiamente sotto controllo in assenza di segnali di stress sui salari, l’investitore equity dovrebbe tendenzialmente rimanere investito in buona parte. A oggi lo scenario non è ancora cambiato dal punto di vista grafico: il minimo relativo di inizio febbraio non è ancora stato abbattuto sui mercati di riferimento (S&P500 e MSCI World), su S&P 500 il minimo fu segnato in area 2530, la chiusura di ieri è 2643,69. Tuttavia il fatto di aver trovato resistenza in area 2150 di MSCI World e 2800 di S&P500 indica che il mercato è ancora in una fase di assestamento e di pericolo.

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Grafici – Indice S&P500 e Indice Eurostoxx50. Fonte Dati: Bloomberg

La domanda da porsi è: ci possiamo aspettare che il mercato dia vita a un’altra ondata di pari entità rispetto a quella di fine gennaio-inizio febbraio? Non era sufficiente uno sconto del 10/12% e (a partire dai massimi di gennaio) serve uno sconto del 20/25% per poter comprare l’azionario in modo 'safe'?

Occorrerà monitorare con estrema attenzione il minimo relativo di inizio febbraio perché, come detto, quello sarà il parametro di riferimento per l’equity globale: l’abbandono di quei livelli significherà il 'divorzio' tra la comunità degli investitori e l’economia leader che ha guidato questo meraviglioso ciclo. Ciò sancirà l’apertura di una fase di sfiducia verso la Borsa americana e – chissà – anche verso il dollaro, nel caso in cui le politiche di Trump continuassero ad apparire imperscrutabili, erratiche e in definitiva pericolose per l’equilibrio complessivo. L’ennesima uscita di scena (Mc Master ha lasciato il posto a un altro 'falco') di certo non promette bene. Se il doppio minimo con febbraio si rivelerà invece confermato, i mercati potrebbero guadagnare tempo senza ulteriori scossoni, in attesa di capire come Trump reagirà alla ferma presa di posizione cinese e a eventuali spostamenti degli equilibri complessivi, come ad esempio accaduto tra Berlino e Pechino di recente.

Nel frattempo si scorge una differenza rispetto alla discesa di fine gennaio: allora il driver fu il timore di una fortissima salita di tassi e rendimenti, dunque non c’era riparo alcuno per gli investitori, di certo non nei bond. Oggi, se il timore è rappresentato da un avvitamento della crescita, ciò indica che in ultima analisi i rendimenti dovranno scendere rispetto alla soglia del 3% (recentemente avvicinata) e dunque i bond possono costituire un riparo, almeno finché non verrà messa in discussione la solidità del credito americano. Cosa accadrebbe, ad esempio, se la guerra dei dazi andasse avanti e il Governo US si dovesse trovare a dover finanziare sul mercato il nuovo debito dovuto alla riforma fiscale? Ecco perché gli investitori hanno ricominciato a comprare con forza il bund e continuano ad apprezzare la divisa-simbolo del 'Surplus World', cioè lo yen.

Il paradosso (uno dei tanti) è che tutto ciò accada 24 ore dopo la prima riunione Fed targata Powell. A seconda delle interpretazioni ciò potrebbe indicare, da un lato, un possibile scollamento istituzionale (il giorno prima il Governatore ha enfatizzato la crescita, il giorno dopo il Presidente ha minacciato la crescita col suo intervento: i mercati possono ancora credere alle Banche Centrali? Non vogliamo conoscere la risposta.) oppure – guardando la vicenda da un’altra angolazione – Trump ha lanciato il primo pesante sasso nello stagno per vedere 'l’effetto che fa' e aprire una fase di contrattazione. Questo perché, al di là del gradimento per la persona-Trump, è innegabile che il sentimento comune e crescente in America e in altre aree del globo è sempre più anti-globalizzazione e sempre più emerge un’esigenza di 'ribilanciamento' di flussi. La risposta che Trump vorrebbe dare è senza dubbio semplicistica, rispetto a un problema complesso e non necessariamente risolvibile.

Di fronte alla complessità della questione è inutile discutere dei massimi sistemi e tentare di dare risposte che nessun economista e nessuna élite potrà mai dare: è preferibile concentrarsi sui rischi e sulle opportunità offerte dai mercati e sulla dinamica espressa dagli Indici di Borsa. Se la 'guerra dei dazi' andasse incontro ora a una fase più riflessiva e di metabolizzazione, il mercato potrebbe rispettare il 'doppio minimo' di inizio febbraio e galleggiare ancora; viceversa, sui mercati potrebbero aprirsi ulteriori spazi di discesa e sarà necessario valutare se sarà in vista una recessione, che in linea teorica sarebbe dovuta arrivare tra 18 mesi per essere dunque scontata dai mercati tra circa 3-6 mesi.

Questo articolo è stato pubblicato precedentemente sul sito di Sofia