Fondi a scadenza: quattro inefficienze da non sottovalutare

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Dafne Cholet, Flickr, Creative Commons

Sono tra i prodotti d’investimento più commercializzati in Italia: un’offerta sempre più variegata e risparmiatori sempre pronti all’acquisto. Basti pensare che la raccolta dei fondi a finestra di collocamento è stata nel 2015 superiore al 73% della raccolta totale degli strumenti di nuova emissioni, secondo i dati di Assogestioni. Anche lo scorso anno la raccolta dei fondi comuni è stata trainata dal successo di queste soluzioni, eleggendole a tutti gli effetti a prodotto più collocato dagli operatori italiani: le elaborazioni dei dati Morningstar per il 2016 confermano che il 62% della raccolta totale dei fondi è stata intercettata da fondi a cedola e di questi, la maggior parte rientrano nella categoria dei fondi a scadenza (1.026 milioni di euro ricavati dai data target nel 2016). Inoltre, negli ultimi anni, a determinare buona parte della crescita dei ricavi degli operatori legati alle commissioni è stato proprio il grande successo dei fondi a scadenza. Si stima infatti che la redditività dalle commissioni d’ingresso (caratteristica tipica dei data target) ammonti ora al 25% delle commissioni totali dei fondi comuni.

Eppure questo tipo di soluzioni non sembrano garantire il rendimento rappresentato dalla cedola. Non solo: dietro al loro successo si evidenziano vincoli temporali degni di rilievo, commissioni d’ingresso nascoste e un’asset allocation inadeguata all’orizzonte temporale. Questa la conclusione di un nuovo report intitolato 'I fondi data target' redatto da Moneyfarm SIM.

La società di consulenza finanziaria online evidenzia come i cosiddetti fondi a scadenza forniscono a gestori e distributori la possibilità di garantirsi margini elevati grazie al meccanismo delle commissioni di collocamento. Questo senza che la struttura del prodotto abbia caratteristiche che sembrino favorire il cliente: la loro composizione cela rigidi vincoli per l’investitore e un’asset allocation non sempre adeguata all’orizzonte temporale. Negli ultimi anni i fondi a scadenza sono stati un successo commerciale così grande da cambiare il modello su cui si basa una grossa fetta dell’industria del risparmio. Ma la fortuna di questi prodotti, secondo gli esperti, sembra purtroppo derivare “più che dalla loro convenienza per i risparmiatori, dai vantaggi che essi garantiscono a collocatori e gestori”. Per Moneyfarm infatti i fondi a scadenza, come altri prodotti, sono stati strutturati pensando più al loro appeal dal punto di vista commerciale che alla loro reale convenienza per i risparmiatori. “Il successo dei fondi target data a finestra di collocamento evidenzia drammaticamente la necessità di educazione finanziaria nel nostro Paese”, commenta Paolo Galvani, presidente e co-fondatore di Moneyfarm, “e conferma ancora una volta che la consulenza indipendente è una garanzia per proteggersi da conflitti di interesse”.

Le quattro inefficienze dell’analisi di Moneyfarm

#1 Il meccanismo delle commissioni di collocamento. "I fondi data target, proprio grazie al fatto di vincolare l’investitore per un certo periodo di tempo, hanno mantenuto le commissioni di ingresso riuscendo a occultarle agli occhi dell’investitore. L’espediente è poco trasparente e fa riferimento alle cosiddette commissioni di collocamento: la banca o il promotore vende il fondo al cliente, la società che gestisce il fondo (che spesso coincide con il distributore) paga interamente al distributore la commissione di collocamento al momento della vendita (una quota che può avere anche percentuali molto rilevanti, fino al 4% o più) e, sfruttando il vincolo temporale del fondo, preleva tramite le commissioni la somma distribuita al collocatore diluendola nel tempo. Se il cliente decidesse di disinvestire dovrebbe infatti pagare una commissione di uscita. Questo sistema permette all’industria del risparmio di raggiungere due obiettivi principali: il primo è quello di mascherare i costi agli occhi dell’investitore, il secondo è quello di anticipare alla rete di distribuzione (in molti casi stiamo parlando di due società dello stesso gruppo) l’intera somma al momento della sottoscrizione".

#2 Il vincolo mascherato da orizzonte temporale. "Per quanto sia positivo l’incoraggiamento ad assumere una prospettiva di medio periodo, la scadenza predefinita dei fondi data target sembra solo una rigidità ulteriore rispetto ad altre soluzioni di investimento in fondi attivi o passivi. Quando si parla di scadenza, in realtà si intende semplicemente la data in cui si potranno ritirare i risparmi senza dover pagare la penale. Sarebbe più appropriato parlare di un vero e proprio vincolo, necessario per sostenere il modello di vendita. Infatti, nella maggior parte dei casi, quando il fondo scade gli asset vengono ricollocati in un altro prodotto della stessa casa. Praticamente è come se il collocatore vendesse due fondi in uno, ma nel secondo il risparmiatore dovrà investire dopo diversi anni. È evidente che il principale vantaggio del target temporale sia quello di garantire un controllo dei flussi in entrata e uscita fin da subito".

#3 Una strategia poco ottimizzata. "I fondi a scadenza vengono collocati quasi sempre con la promessa che adotteranno un’asset allocation adeguata all’orizzonte temporale. Tuttavia, andando a controllare la composizione dei portafogli di alcuni tra i prodotti più venduti, ci si accorge che la corrispondenza tra l’orizzonte temporale di scadenza degli asset in portafoglio è assolutamente teorica, se non completamente assente. Infatti, gli strumenti che hanno una scadenza coincidente con quella del fondo sono davvero pochi e la diminuzione graduale del rischio è assente".

#4 La cedola che non è una cedola. "È allettante avere la prospettiva di ricevere una remunerazione periodica fissa dal proprio investimento. Nel caso dei fondi a scadenza, però, il rendimento rappresentato dalla cedola non è assolutamente garantito. Se il portafoglio dovesse andare in negativo, ad esempio, la cedola verrebbe pagata attingendo direttamente dal capitale investito. In questo caso si creerebbe anche il paradosso che l’investitore pagherà la tassa relativa al capital gain (26%) sui capitali distribuiti, che sono di fatto i suoi risparmi e non dei rendimenti".