ETF a caccia di cedole

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Scombussolati dalle montagne russe del mercato, gli investitori subiscono più che mai il fascino della cedola. E gli Exchange Traded Fund, strumenti sempre più presenti nei portafogli, si adeguano. Su 1.288 replicanti disponibili su Borsa Italiana, ce ne sono 335 che staccano un pagamento periodico, spaziando in 42 macro-categorie Morningstar.

Di questi, 195 sono azionari e 136 obbligazionari, mentre i restanti quattro si dividono in due monetari, un bilanciato e un alternativo. A livello di macro-categorie, la più rappresentata è quella dei fondi obbligazionari in dollari con 53 ETF, seguita dagli azionari Europa a grande capitalizzazione con 52 replicanti, dagli obbligazionari euro con 50 prodotti e dagli azionari USA a grande capitalizzazione con 33 ETF.

L’incasso ricorrente di una somma, seppur contenuta, è sovente visto dagli investitori come un modo semplice e automatico per fare piccole prese di beneficio sull’investimento effettuato. Anche dal punto di vista psicologico ha una sua importanza. Per i fondi passivi quotati la politica di distribuzione o meno della cedola viene decisa dall’emittente che la indica nel prospetto informativo. I dividendi vengono pagati almeno una volta l’anno, con cadenza che diventa semestrale o anche trimestrale soprattutto per gli ETF obbligazionari. 

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Trimestre da record

Secondo un’analisi di Janus Henderson, il terzo trimestre del 2018 è stato un periodo eccellente per i dividendi globali. La forza costante dell’economia mondiale ha alimentato la redditività delle imprese in tutto il mondo. Le distribuzioni sono salite del 5,1%, segnando un record per il terzo trimestre a 354,2 miliardi di dollari. Stati Uniti, Canada, Taiwan e India hanno registrato distribuzioni ai livelli massimi, mentre i dividendi in Cina hanno ricominciato a crescere dopo tre anni in calo. Le distribuzioni in termini complessivi negli Stati Uniti sono salite del 9,1% attestandosi su una cifra record di 120 miliardi di dollari.

Pochissime aziende europee versano i dividendi nel 3° trimestre, ma quelle che l’hanno fatto sono cresciute molto, in linea con le performance incoraggianti del secondo trimestre che rappresenta una stagione importante da questo punto di vista. Nel Regno Unito, le distribuzioni sono salite addirittura dell’11,1%, rettificate per il calo dei dividendi straordinari, l’indebolimento della sterlina e gli effetti di calendario. Le stime di crescita complessiva per Janus Henderson restano invariate all’8,5%, per cui i dividendi totali previsti nel 2018 salgono a 1.359 miliardi di dollari. In termini sottostanti, ciò significa che la crescita nell'anno dovrebbe essere dell’8,1%.

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Occhio al  tracking error

Tuttavia, se da un lato è piacevole mettersi in tasca una cedola, dall’altro gli investitori in fondi passivi ad alto dividendo devono essere consapevoli che questa pratica potrebbe avere un effetto negativo sul tracking error del replicante. Nella maggior parte dei casi, infatti, gli ETF che pagano i dividendi, non reinvestendo i proventi dei titoli nel fondo stesso, mantengono tali guadagni sotto forma di liquidità fino alla data di stacco prevista. Questa pratica (chiamata ‘cash drag’) può potenzialmente creare una differenza negativa tra i rendimenti dell’ETF e del benchmark, durante le fasi di mercato rialzista, visto che i dividendi non vengono reinvestiti nel fondo. Vale però anche il contrario.

La prima tabella mostra i 15 ETF quotati su Borsa Italiana che pagano lo dividend yield più alto (dati a fine ottobre 2018). Attenzione però a non farsi troppo ingolosire solo da questo dato, seppur importante; occorre infatti stare sempre attenti, perché questo tipo di fondi presenta strategie spesso molto diverse tra loro, che possono portare a profili di rischio differenti. La cosa più importante è evitare la cosiddetta 'trappola del dividendo', cioè investire in aziende che presentano un dividend yield elevato, ma in alcuni casi non sostenibile

“Due indicatori proprietari per poter capire se si ha in portafoglio un titolo valido o una trappola, in termini di dividendo, sono l’Economic Moat e il Distance to Default (letteralmente: distanza dalla bancarotta, ndr)”, spiega Dan Lefkovitz, strategist di Morningstar Indexes. “Una società con un buon vantaggio competitivo è in grado di far crescere i suoi profitti e tenere alla larga i concorrenti. Il Distance to default è una misura del grado di forza di un bilancio. Indica le possibilità di una bancarotta.

Guarda a elementi come il debito e la volatilità e calcola se la somma degli asset di un’azienda corra il rischio di essere inferiore alle sue passività. Le nostre analisi hanno dimostrato che, a fronte di un vantaggio competitivo ampio e di un maggiore Distance to default, ci sono minori possibilità di vedere una società tagliare i dividendi”. 

Il sistema di analisi affonda le radici nel Dividend Yield Focus Index, il paniere lanciato da Morningstar nel 2010 mentre stava montando la tempesta finanziaria scatenata dai mutui subprime. “Molte strategie basate sui dividendi in quel momento sono andate in crisi”, dice Lefkovitz. “Questo perché guardavano solo al passato, utilizzando metriche come la storia dei dividendi, la crescita delle cedole e il payout ratio. Tutti sistemi che si sono dimostrati fallimentari nel predire il futuro dei dividendi”. Lanciato come sistema dedicato alle aziende USA, il metodo è stato poi esteso a tutte le società a livello globale coperte dalla ricerca Morningstar.