Cinque motivi per cui il 2018 promette di essere l’anno dei PEPP

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foto: autor mariateresa Toledo, Flickr, creative commons

Attualmente solo il 27% degli europei tra i 25 e i 59 anni è iscritto a un piano pensionistico, stando ai dati OCSE. Da qui circa tre anni fa nasce l’idea dei PEPP (Pan-european personal pension) con una proposta lanciata dall’Eiopa (Autorità delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali) sulla base dei dettami della Commissione europea. Tra gli obiettivi della commissione UE, il principale è quello di incrementare il numero di iscritti ai fondi pensione. I PEPP sono fondi pensione a basso costo, con standard unificati in tutta l’UE, che andrebbero ad affiancare gli strumenti nazionali esistenti ed hanno come principale vantaggio quello di garantire costi minori per effetto della maggiore concorrenza, oltre ad offrire maggiore trasparenza, più scelta, maggior tutela e portabilità sul territorio europeo. 

A poter aderire volontariamente ai PEPP, in aggiunta agli strumenti nazionali disponibili, saranno studenti, lavoratori dipendenti e autonomi. Questi potranno inoltre contare su un passaporto europeo che garantirà la trasferibilità dei Pepp all’interno dell’Unione. I PEPP ovviamente non sostituirebbero, ma affiancherebbero i prodotti previdenziali già esistenti nelle singole nazioni, promuovendo la concorrenza tra i fornitori, a beneficio dei risparmiatori. Proprio un aumento della concorrenza dovrebbe spingere istituti di credito e società assicurative ad abbassare i costi degli attuali strumenti di previdenza complementare per renderli più competitivi e più convenienti per i consumatori che sarebbero così incentivati ad aderire. In Italia andranno ad affiancarsi ai prodotti previdenziali individuali già esistenti, per certi versi facendo concorrenza ai fondi pensione aperti, ai fondi negoziali e alle polizze PIP.

La fiscalità sarà la carta vincente
Sebbene la portabilità sia uno dei maggiori pregi di questo strumento (le SGR si strofinano già le mani in vista delle possibilità di ampliamento del business e di accesso, anche in ambito previdenziale, a mercati diversi da quello nazionale), sorgono interrogativi sulla fiscalità di questi prodotti. La normativa in fase di studio armonizza infatti alcune caratteristiche essenziali dei PEPP (distribuzione, politica degli investimenti, trasferimento e portabilità), ma non il trattamento fiscale. Non potendo incidere sulla normativa fiscale, che resta competenza dei singoli Paesi, la Commissione Europea deve limitarsi a raccomanda agli stati membri dell’UE di riconoscere ai prodotti pensionistici individuali paneuropei gli stessi sgravi fiscali concessi ai prodotti pensionistici individuali nazionali. Pensando al successo riscosso dai PIR che offrono un vantaggio fiscale all'investitore, per favorire la loro diffusione la carta da giocare per garantire una maggiore appetibilità dovrebbe essere quella degli incentivi fiscali.

La situazione del terzo pilastro in Italia
A fine 2017, il numero complessivo di iscritti a forme pensionistiche complementari (incluse le duplicazioni relative a coloro che aderiscono contemporaneamente a più forme) è di 8,3 milioni. Di questi 2,8 milioni sono sottoscrittori di fondi negoziali mentre nelle forme pensionistiche di mercato offerte da intermediari finanziari, i fondi aperti totalizzano 1,4 milioni di iscritti. Nei PIP nuovi il totale degli iscritti è di 3,1 milioni. Per quanto riguarda le risorse in gestione, a fine dicembre 2017 il patrimonio accumulato dalle forme pensionistiche complementari ammonta a 160,7 miliardi di euro (il dato non tiene conto delle variazioni nel periodo dei fondi pensione preesistenti e dei PIP vecchi). Le risorse dei fondi negoziali ammontano a 49,5 miliardi di euro. I fondi aperti dispongono di un patrimonio di 19,1 miliardi e i PIP nuovi di 27,6 miliardi. 

Nel corso dell’anno passato, infine, sono stati lanciati in Italia sei nuovi fondi pensione, secondo i dati di Morningstar.

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