Cina, al centro del mirino

Ascari
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Analisi a cura di Enrico Ascari, membro del Comitato Investiment di Assiteca SIM.

La Cina è il Paese che decide le sorti della crescita mondiale, con un contributo superiore al 30%, rispetto al 43% dei rimanenti Paesi emergenti e all’11% degli Stati Uniti. Per i produttori e per gli investitori il mercato cinese e le modalità di consumo dei millennials locali diventano cruciali per decidere l’allocazione degli investimenti. Con il peso del mercato azionario statunitense, che supera alla grande il 50% della capitalizzazione globale, diventa obbligatorio guardare con più attenzione le imprese che beneficeranno dell’esplosiva crescita dei consumi in estremo oriente. È importante capire come sta cambiando il Paese e se, e in quale misura, la “guerra” commerciale scatenata dal Presidente Trump potrà seriamente frenare le attuali aspettative di sviluppo.

Commercio internazionale: una nuova era? I

ll momento di massima espansione del commercio internazionale è stato raggiunto, non a caso, nel 2008. A seguito della botta che ha determinato la grande recessione, si è avviata una ripresa che rischia di interrompersi con il rafforzarsi della deriva populista e antiglobalista nei Paesi occidentali. Il Presidente Trump, alfiere dell’America First, ha al primo punto della sua agenda il riequilibrio commerciale a favore degli Stati Uniti, con la Cina al centro del mirino, l’Europa in seconda battuta e un po' di legnate da distribuire, quando capita, agli altri devianti, dalla Russia, alla Turchia, all’Iran.

Quanto tutto ciò sia propaganda per i gonzi o un convinto cambio di indirizzo si vedrà dopo le imminenti elezioni di mid term statunitensi. Rimane il fatto, incontrovertibile, che le pulsioni nazionaliste e antiglobaliste fanno strada, un po' come è successo durante la depressione degli anni '30 del secolo scorso. Le corporation globali e gestori di patrimoni cominciano a prenderne atto. In particolare varie multinazionali considerano supply chains alternative e rivalutano da tempo alcuni vantaggi dell’insourcing. L’ipotesi che l’amministrazione Trump possa alzare ulteriormente le barriere tariffarie su200 miliardi di dollari di valori già identificati scambiati con la Cina, allargarne la portata fino a 500 miliardi e estendere la guerriglia a altri blocchi economici, non è campata per aria. Le ricadute economiche e sociali, indiscutibilmente negative, sono comunque difficilmente misurabili e prevedibili, sia a livello di crescita geografica e settoriale, sia in termini di volatilità delle valute e dei tassi d’interesse.

Per quanto riguarda l’economia cinese, l’impatto sulla crescita del PIL anche nelle ipotesi più estreme avanzate finora, inciderebbe per non più di qualche decimo di punto percentuale. Si ipotizza uno 0,5-0,7% annuo che potrebbe essere comunque ridimensionato da opportune risposte di politica economica da parte del Presidente Xi. Si ha motivo di ritenere, comunque, che le prospettive del grande Paese asiatico rimangano decisamente favorevoli malgrado le crescenti tensioni internazionali. Da una parte, le vicende degli ultimi anni hanno confermato la flessibilità della leadership politico-economica di Pechino (rimodulazione delle strategie di crescita, controllo, faticoso, del debito privato, gestione del cambio). Dall’altra, il modello di sviluppo ha fatto un salto in avanti, passando dall’era dell’acciaio e del cemento direttamente a quella della connettività digitale, saltando l’epoca dell’informatizzazione. In prospettiva si farà leva sull’enorme bacino dei millennials.

Economia: solida ma in trasformazione

Una economia che cuba 12.000 miliardi di dollari, cresce al ritmo del 6,7% annuo e crea dieci milioni di posti di lavoro urbani ogni anno non può certo essere considerata in crisi. Eppure da anni, tra la maggioranza degli osservatori prevale lo scetticismo. La Cina sta cambiando e imparando molto più velocemente di quello che si pensi. Da anni ormai il Partito ha deciso di ribilanciare la domanda a favore dei consumi rispetto agli investimenti, in particolare quelli nell’industria pesante e nelle infrastrutture. Sono noti i rischi e le difficoltà derivanti da un eccesso storico di investimenti improduttivi finanziati a debito grazie a un sistema finanziario opaco. La crescita del PIL reale è in progressivo, logico, rallentamento, mentre il tasso di investimento è in visibile decrescita. Ma la dinamica del PIL reale non racconta l’intera storia. È necessario approfondire l’analisi per capire quanto l’economia cinese stia cambiando più rapidamente di quanto non percepisca la maggioranza dei commentatori.

In primo luogo nel secondo decennio del secolo l’economia è stata oggetto di un profondo processo di ristrutturazione, evidentemente ancora incompleto ma avviato. Infatti, il tasso di crescita del PIL nominale è crollato di oltre il 60% tra il 2011 e il 2015, passando dal 20% all’8% circa4, schiacciato dal calo dei prezzi alla produzione; successivamente il Governo, aiutato anche dal parziale recupero dei prezzi delle materie prime, ha ridotto forzosamente la capacità produttiva di molti settori della “Old Economy”, favorendo un recupero di profittabilità dei produttori industriali cinesi e dei paesi limitrofi. Inoltre, con la leadership del Presidente Xi, il partito ha scatenato un attacco al sistema finanziario ombra - molto vivace in un paese caratterizzato da un notevole dinamismo speculativo - il che ha messo sotto pressione la crescita della componente finanziaria del prodotto. Il peso di questo settore è oggi pari al 16% del PIL, con una crescita annua non superiore al 4%.

Tra l’altro nell’ambito del settore finanziario è il credito al consumo che cresce a ritmi superiori (+18,8% anno su anno), doppi rispetto al credito indirizzato alle imprese. Ovviamente il debito delle famiglie è cresciuto molto negli ultimi cinque anni, passando dal 29% al 49% del PIL, mentre rallentava la crescita del debito corporate. Un eccessivo onere per interessi può rallentare la dinamica dei consumi. Ancora lo scorso 27 agosto però, Mr. Liu, il più ascoltato consigliere economico del Presidente, ribadiva che “il delevereging e la prevenzione dei rischi finanziari sono le due priorità per il 2018”. Infine, le élite di comando cinesi, che a differenza di quelle occidentali hanno molto più spazio di manovra, imparano in fretta. La Banca Centrale ha pagato sulla propria pelle nel 2015 quanto possa essere rischioso mettersi nelle mani dei mercati internazionali, nell’errata illusione di liberalizzare i movimenti dei capitali pur mantenendo simultaneamente il controllo dell’offerta interna di moneta e del cambio. In breve sono state reintrodotte misure di parziale controllo dei capitali che hanno interrotto sia un potenziale avvitamento speculativo del renmimbi, sia il montante deflusso di fondi, che stava intaccando le enormi riserve valutarie. Il recente calo della valuta cinese non è un segno di debolezza, né la conseguenza di evidenti manipolazioni, quanto piuttosto il riflesso del “benign neglet” delle Autorità, una sorta di risposta indiretta all’approccio del Presidente Trump sul tema del commercio bilaterale.

Tra l’altro se l’inquilino della Casa Bianca pretende che il surplus commerciale bilaterale cinese sia pari a 400 miliardi di dollari, in realtà, considerando le vendite delle società statunitensi basate in Cina (sia locali, sia ri-esportate negli USA), il saldo netto dell’intercambio di merci e servizi tra i due colossi sembra sia a favore degli Stati Uniti per 20 miliardi di dollari. Una moderata svalutazione può ridurre i danni causati dalle barriere tariffarie alzate da Washington ed è coerente con l’attuale equilibrio delle partite correnti e la solida “guidance” del piano pluriennale verso una necessaria crescita dei consumi interni. D’altra parte, il surplus della bilancia corrente cinese è sceso dal 10% del PIL di dieci anni fa all’1% di oggi, confermando la riduzione dell’eccesso di risparmio interno. Va ricordato che il “saving glut”, cioè l’eccesso di risparmio dei Paesi asiatici e in particolare della Cina, riciclato in dollari investiti in attività finanziarie prevalentemente statunitensi (obbligazioni governative, proprietà immobiliari e investimenti azionari diretti o su società quotate), è stato uno dei fattori indiretti che hanno contribuito a gonfiare la bolla immobiliare americana nei primi anni duemila. In futuro questa fonte di domanda, soprattutto per i titoli emessi dal Tesoro USA, verrà meno. Aver raggiunto una situazione di pareggio strutturale nei conti con l’estero è un segnale positivo per la Cina e, probabilmente, per gli equilibri globali. Tutto ciò è storia. Gli aspetti più interessanti della narrazione sulla Cina riguardano però il futuro e, in particolare, come il Paese sta velocemente accelerando verso l’economia digitale.

I millennials: i nuovi trend setter

Si stima che ci siano circa 828 milioni di “millennials” in Asia, di cui circa il 40%, 330 milioni, sono cittadini cinesi. È lo stesso ordine di grandezza dell’intera popolazione degli Stati Uniti, dove non superano i 66 milioni. I millennials rappresentano il 23,4% della popolazione cinese e sono la classe demografica che dominerà la forza lavoro e il mercato dei consumi nei prossimi decenni. Secondo uno studio di Boston Consulting Group gli utilizzatori cinesi della rete sono in media di 14 anni più giovani rispetto a quelli statunitensi. Le giovani generazioni del grande Paese asiatico sviluppano tendenze di consumo peculiari e in veloce evoluzione, di natura più aspirazionale. In primo luogo perché in media, a differenza di quanto non accada nei paesi occidentali, hanno redditi nettamente superiori a quelli dei loro genitori. I giovani hanno imposto il dominio dell’accesso a internet attraverso lo smartphone, determinano il tasso e la velocità di penetrazione delle nuove tecnologie e dei servizi digitali con un utilizzo più intenso e frenetico delle app rispetto alle abitudini occidentali, spendono di più online e circa un terzo del loro reddito è destinato a consumi legati al tempo libero.

L’impatto di internet sull’economia cinese

La dimensione dell’economia di internet rispetto al PIL è pari al 6,9%, rispetto al 5,4% degli Stati Uniti; è verosimile che il gap si stia allargando negli ultimi anni considerando le tendenze in corso e il fatto che la penetrazione di internet in Cina è ancora relativamente contenuta, ovvero è pari al 53% (negli USA è al 75%). La Cina ha più di 800 milioni di utilizzatori di internet che la rendono il primo mercato mondiale per i big dell’high tech e il secondo in termini di spesa on line. Gli utilizzatori della rete crescono al tasso del 25%, mentre l’on line spending al ritmo del 32% annuo. L’accesso al web avviene in larghissima prevalenza attraverso la telefonia mobile, con il mercato degli handset dominato dai tre maggiori operatori cinesi. Il sistema operativo prevalente per gli smartphone è Android di Google.

Non è un caso che Google e Facebook stiano cercando di rientrare sul mercato malgrado la censura. La Cina ha un sistema di pagamenti on-line più avanzato e un peso dell’e-commerce più elevato rispetto agli Stati Uniti. Il governo, che controlla attraverso le tre società telefoniche statali la trasmissione dati – e ha ridotto i prezzi della connessione del 30% quest’anno – ha puntato forte sullo sviluppo dell’economia digitale e sui servizi high tech, visti come forte driver di crescita sostitutivo della manifattura export driven. Il mercato internet cinese, più basato sull’utilizzo delle applicazioni da adattare alle specifiche caratteristiche dei segmenti di mercato e dei bisogni, piuttosto che sulla pura innovazione tecnologica, è estremamente competitivo, volatile, dominato dai tre colossi Tencent, Alibaba e Baidu. I rispettivi ecosistemi (che includono, tra l’altro, WeChat, Alipay, Taobao, Iqiyi, rispettivamente leader nel messaging, pagamenti on line, e-commerce e online video) sono in grado di determinare il successo o meno di un numero crescente di attività nell’ambito di un crescente numero di settori dell’economia.

Conclusioni

Se si considerano le recenti modalità di sviluppo dell’economia cinese, è probabile che la guerra commerciale in corso con gli Stati Uniti servirà solo a velocizzare la riconversione in corso da un modello dipendente dall’export a un’economia basata sullo sviluppo dei servizi per il crescente mercato del consumo interno, peraltro sulla frontiera efficiente della modernità. Tutto ciò avrà conseguenze di vasta portata, molte delle quali non immaginabili. Aumenterà probabilmente l’influenza geopolitica della Cina sull’Asia; il confronto competitivo con la superpotenza americana potrebbe diventare più pericoloso, ma su questo fronte tutte le scommesse sono aperte. Per quanto riguarda i movimenti dei capitali internazionali (globalizzazione finanziaria), si andrà probabilmente verso un ridimensionamento: l’assorbimento del surplus strutturale della bilancia commerciale cinese asciugherà il deflusso di capitali, in particolare verso gli Stati Uniti. Non passerà troppo tempo, forse, prima che a Washington debbano rimpiangere i flussi di capitali asiatici che hanno per decenni finanziato i twin deficit statunitensi, bolle dot.com immobiliari incluse. Viceversa c’è da attendersi che i mercati azionari cinesi diventino il nuovo polo di attrazione dei flussi di investimento internazionali: in fin dei conti la crescita attesa è qui.