Aspettando Godot. La condizione dell'attesa

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Il contesto internazionale si è arricchito in queste ultime settimane di dati economici e finanziari che sempre più convergono verso un quadro di crescita complessivamente contenuta e di inflazione pressoché assente, nonostante i ripetuti e continui sforzi accomodanti effettuati in tutte le aree geografiche del pianeta. Nel corso di questi ultimi anni, le banche centrali sono riuscite nel difficilissimo compito di stabilizzare e supportare i mercati finanziari e contemporaneamente cristallizzare il sistema economico su livelli di attività certamente poco brillanti, ma per lo meno non drammatici. Sembra quasi che si sia creato una specie di limbo, un tempo indefinito in cui viene costantemente alimentata l’attesa. L’attesa che riparta la crescita, l’attesa che cresca il commercio mondiale, l’attesa che l’inflazione si risollevi. L’attesa insomma che, dopo gli immani sforzi di allentamento monetario e fiscale, si producano quegli effetti che sempre in passato sono stati generati dopo l’azione di simili strumenti. Ma come accade nell’opera teatrale “Aspettando Godot”, di Samuel Beckett, l’oggetto dell’attesa non giunge mai. Il tempo comprato in termini di denaro a buon mercato e di incentivi fiscali e di espansione della spesa pubblica, laddove ci sono stati, non può sopperire strutturalmente all’enorme drenaggio in termini di investimenti che da alcuni anni riguarda soprattutto i paesi emergenti.

Che gli investimenti siano in calo strutturale sia in Europa che negli USA è un dato di fatto da decenni, ma il fenomeno è molto più recente in aree come l’America Latina e molte economie asiatiche. Se osserviamo a tale proposito l’indice JP Morgan che sintetizza il PMI manifatturiero a livello mondiale, questo evidenzia un lento ma costante appiattimento del suo valore a ridosso del valore del 50, segnaletico di un sostanziale stallo del settore secondario, economie emergenti comprese. La critica che spesso viene mossa all’eccessiva importanza che viene attribuita al PMI manifatturiero è che ormai il settore industriale pesa sempre di meno a livello di contribuzione alla crescita e che l’unico PMI rilevante è quello dei servizi. In realtà, se questo può essere abbastanza vero per le economie sviluppate, dove i servizi contribuiscono per il 70/80% dell’intero GDP, il concetto non sembra applicabile per le economie emergenti, che negli ultimi decenni sono state motore trainante della crescita mondiale, nonché destinatarie della quasi totalità degli investimenti internazionali. La Cina, ad esempio, nel suo titanico sforzo di cambiamento della propria struttura economica, vede al momento una contribuzione pressoché paritetica tra settore industriale e settore servizi, come mostra il grafico sotto. E’ lecito dedurre che la crisi del manifatturiero possa avere natura strutturale, visto il trend in atto di costante riduzione della componente investimenti. I livelli di tasso particolarmente bassi che hanno caratterizzato infatti il sistema finanziario a partire dal 2008 non sono oggi sufficienti a far ripartire gli investimenti, anzi. Il credito facile, che ha infatti sostenuto sia alcuni settori dei paesi sviluppati (si pensi all’energy per esempio) sia intere economie quali la stessa Cina, ha invertito la propria rotta  sia per la mutata politica monetaria della Fed, sia per il deleveraging in atto a livello mondiale.

Tornando ai paesi occidentali, occorre sottolineare che il flusso di dati pubblicati durante le scorse settimane conferma un contesto in lieve deterioramento per l’economia statunitense, un più  evidente rallentamento per quella britannica e una sostanziale tenuta dell’Eurozona. Negli USA infatti, nonostante la piena occupazione, la componente dei consumi non sembra ripartire così come sempre accaduto in passato. In particolare il dato comprensivo di vendite al dettaglio più settore ristorazione sembra aver intrapreso nuovamente un sentiero di crescita estremamente risicata, +1,7% y/y, uno dei valori più bassi degli ultimi quindici anni, eccezion fatta per i periodi di recessione. Dopo un primo trimestre di crescita molto modesta dunque – la prima stima del GDP è uscita a +0,5%- anche i dati di aprile non sembrano deporre per un brillante rimbalzo nel secondo quarter dell’anno. Le attuali probabilità di rialzo dei tassi attribuite dai contratti future sui Fed Fund si sono ulteriormente ridotte e oscillano adesso intorno al 10%, una percentuale che sembra andare bene anche alla Fed, per la quale il percorso di inasprimento dei tassi intrapreso lo scorso dicembre diviene sempre più incerto.

In Eurozona invece i dati continuano a mostrare una certa resistenza. Non solo la stima del PIL del primo trimestre, pari a +0,6%, è una delle più alte degli ultimi anni, ma anche a livello di indicatori PMI, ad aprile questi sono risultati comunque solidi, con l’indice dei servizi confermato a 53,1 come il mese precedente, quello manifatturiero in lieve avanzamento a 51,7 dal 51,6 di  marzo e quello composito  a 53,0 in frazionale discesa dal 53,1 di quello precedente. Decisamente più evidente appare invece il rallentamento dell’economia britannica. Oltre a una prima stima di Pil del primo trimestre pari a +0,4%, anche più preoccupanti appaiono gli indicatori PMI di aprile, che si trovano su valori che indicano un ritmo di crescita del paese ai minimi degli ultimi tre anni. 

Se si osserva il grafico che abbiamo sotto riportato, applicando la correlazione esistente tra livelli di PMI e GDP, è evidente che con un PMI composito pari a 51,9, il tasso di crescita è destinato a scendere ulteriormente. Secondo Markit la crescita trimestrale associata all’attuale livello di PMI è +0,1%, ben più bassa della già scarsa rilevazione di gennaio/marzo. E’ innegabile che l’incertezza legata al referendum Brexit abbia un indiscutibile peso in questo peggioramento del quadro, anche se in realtà il sentiment è in deterioramento da diversi mesi e enfatizzare l’incognita del referendum di fine giugno può apparire riduttivo. Ad esempio la componente delle aspettative delle società operanti nel settore terziario è in netto calo da parecchio tempo, addirittura dai primi mesi del 2015. Il valore raggiunto ora ad Aprile è il più basso delle ultime 33 rilevazioni.

Per quanto riguarda invece l’andamento dell’inflazione, al momento qualche timido segnale a favore di un contenuto rialzo dei prezzi è comparso negli Stati Uniti, anche se complessivamente gli indicatori internazionali restano decisamente bassi. In tal senso non possiamo non citare il recente taglio dei tassi effettuato dalla RBA (Royal Bank of Australia), costretta a un ulteriore allentamento del cash rate, sceso dal 2% all’attuale 1,75%, dopo gli ultimi dati sui prezzi al consumo particolarmente bassi. Ad aprile infatti il CPI atteso in lieve rialzo a +0,2% m/m, si è rivelato invece essere a -0,3%. Nel comunicato della RBA si riscontrano evidenti preoccupazioni sia per le pressioni al ribasso sui prezzi e sui salari, sia un ulteriore rallentamento della crescita futura.