Aberdeen è dalla parte delle donne

Anne_-_Nov_2013
immagine concessa

La sensazione è che la battaglia per garantire una rappresentanza femminile più equa nel mondo degli affari sia già stata vinta. Oggi, in effetti, 22 amministratori su 100 delle società del FTSE 100 sono donne. Da oltre 10 anni, la Norvegia ha introdotto le quote rosa obbligatorie fissando un’ambiziosa soglia minima del 40% per la presenza di donne nei consigli di amministrazione delle maggiori società. All’epoca, l’iniziativa fu salutata quasi con scherno, ma di fatto ha cambiato le regole del gioco e ha messo in evidenza la necessità di stabilire vere e proprie quote per perseguire davvero l’obiettivo di aumentare l’equità di genere all’interno dei consigli di amministrazione. Da allora, questo metodo si è diffuso a livello globale.

Nell’Unione Europea, per esempio, è stata avanzata la proposta di fissare le quote rosa al 40% per tutti gli Stati membri. Secondo uno studio legale, a fine 2013 si contavano oltre 50 città nella Cina continentale provviste di norme per aumentare ex lege la presenza femminile nei consigli di amministrazione di società pubbliche e private. L’Australia ha varato leggi per migliorare la parità di genere nei luoghi di lavoro e la Nuova Zelanda si sta muovendo per fare altrettanto. “Purtroppo, però, la strada è ancora lunga”, afferma senza esitazione Anne Richards, chief investment officer di Aberdeen e ideatrice di Backroom 2 Boardroom, associazione di network tutta al femminile nata nel 2011. Continua: “il dibattito è stato incentrato fin troppo a lungo solo sui ruoli dirigenziali più alti. I progressi fatti in questo campo sono senz’altro positivi, ma a mio avviso non bastano. Una più equa rappresentanza femminile a ogni livello della gerarchia aziendale è di vitale importanza per qualsiasi impresa che voglia davvero valorizzare le proprie risorse umane. Concentrandosi solo sulla composizione dei cda, si corre il rischio di creare una piramide invertita in cui le donne sono rappresentate nelle posizioni aziendali di vertice, ma sono praticamente assenti dai quadri sottostanti in cui si dovrebbero formare le donne manager del futuro”.

In generale, la presenza femminile è molto forte nei livelli più bassi della scala gerarchica. “Molte società di servizi professionali, ad esempio, come gli studi legali o contabili, che assumono neolaureati, scelgono candidate donne in numero pari se non addirittura superiore ai colleghi uomini e questo dimostra che dalle università escono ragazze con una buona preparazione. Più che una piramide invertita, dunque, la presenza femminile nelle gerarchie aziendali è forse meglio rappresentata da una clessidra, poiché le donne ricoprono ruoli di vertice e di livello base, ma scarseggiano nei quadri intermedi. Questa circostanza credo abbia molteplici cause. Alcune sono ovvie: troppe aziende ancora non offrono la flessibilità necessaria per conciliare vita familiare e carriera, pertanto molte lavoratrici sono costrette ad accettare compromessi su uno dei due fronti. Altre sono meno evidenti: le persone possono avere una tendenza inconscia a favorire altri individui simili a loro, pur senza rendersene conto”, precisa la manager. Questo può spiegare perché donne con capacità e competenze analoghe a quelle di colleghi uomini impiegano più tempo per ottenere una promozione.

“Tra le molte cose che la crisi finanziaria ci ha insegnato, c’è senz’altro il pericolo insito nella mentalità di gruppo, per cui management composti da persone troppo simili non riescono a discernere con chiarezza i rischi che si moltiplicano intorno a loro. Un consiglio di amministrazione dominato da un numero eccessivo di persone simili, in termini di appartenenza di genere, esperienza o altri fattori, tende a pensare sempre nello stesso modo. Molto poco, dunque, era stato cambiato o messo in discussione prima che la crisi finanziaria scoperchiasse il vaso di Pandora”. Il punto di fondo è questo: le imprese devono rendersi conto che la parità di genere offre vantaggi in termini di business. Team composti da individui eterogenei prendono decisioni migliori e questo è un bene per tutta l’organizzazione aziendale. La maggior parte delle imprese ha un ampio bacino di clienti che sono diversi gli uni dagli altri e dunque il pluralismo diventa un valore anche dal punto di vista commerciale. “Avere al proprio interno un organico variegato che esprime idee e opinioni differenti aumenta le capacità dell’azienda di soddisfare le esigenze diversificate dei clienti. Le imprese devono coltivare le proprie risorse umane migliori a prescindere da genere, etnia, religione o altri aspetti e accogliere la diversità come un valore. Il cambiamento è già in atto. Ma dobbiamo spingerci oltre”, conclude.