Viva la libertà

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Gli investitori oggi farebbero bene ad assicurarsi di non essere prigionieri delle loro abitudini. Spesso è difficile per molti di loro rinunciare a strategie che si sono dimostrate efficaci per lungo tempo. Qualora fosse necessario, lo ricordano i danni causati da ogni inversione di tendenza, come la fine della preminenza dei titoli tecnologici alla chiusura del decennio, dei titoli finanziari nel 2008, o delle materie prime quattro anni fa. Siamo oggi convinti che sia giunto il momento di rimettere in discussione le tendenze di mercato degli ultimi sette anni. 

Negli Stati Uniti il mercato non ha integrato il rischio imminente di rallentamento economico. Nel terzo trimestre gli utili aziendali hanno iniziato a contrarsi. Ciò è dovuto al fatto che, seppure il ciclo dei tassi d’interesse è appena iniziato, quello economico è già in corso da sette anni. Fino a poco tempo fa, i margini delle aziende aumentavano in maniera significativa raggiungendo livelli storici, sostenuti principalmente dalla contrazione dei costi salariali e dal calo dei tassi di interesse. Oggi, la diminuzione del tasso di disoccupazione sta innescando un aumento dei costi salariali mentre l’andamento dei tassi d’interesse sta per diventare sfavorevole. Di conseguenza, i margini delle aziende, inevitabilmente, diminuiranno, a maggior ragione se il dollaro si apprezza. Gli investimenti aziendali conseguenti, motore della crescita, tenderanno quindi a indebolirsi. Potranno essere sostituiti dai consumi? Fino a poco tempo fa, nonostante una contrazione dei costi salariali, i consumi si erano dimostrati estremamente resilienti, sostenuti dalla riduzione tendenziale del tasso di risparmio e degli oneri finanziari. Da ormai tre anni, il tasso di risparmio non diminuisce più (il famoso “effetto ricchezza” si è inceppato), e la fiducia delle famiglie (misurata ogni mese dal “Consumer Confidence Index” del Conference Board) sta venendo meno da inizio anno. Di conseguenza, anche in presenza di un lieve aumento dei redditi medi, un’accelerazione dei consumi negli Stati Uniti è molto improbabile.  

Infine, anche il motore delle esportazioni oggi è molto vulnerabile. Poiché il rallentamento dell’attività industriale cinese prosegue e spinge le aziende a liquidare le proprie sovraccapacità sotto forma di esportazioni a basso prezzo. Il che accresce la pressione sui fatturati degli esportatori statunitensi. Questa prospettiva globale non viene contemplata dall’indice S&P 500 (ancora al 2% dei livelli storici). Questo deriva principalmente dal fatto che l’ingegneria finanziaria, in particolare i massicci programmi di buy back, continua a moltiplicare gli utili per azione. L’anticipato rialzo dei tassi di interesse combacerà con l’indebitamento netto delle aziende statunitensi (cresciuto dell’80% in tre anni da 1,5 a circa 2,8 trilioni di dollari nel 2012) e inevitabilmente metterà un freno al “doping” degli utili per azione. La ripresa ciclica in corso in Europa da inizio anno ha sfruttato quasi tutto il suo potenziale. Secondo le ultime statistiche disponibili la ripresa dovrebbe confermarsi nel quarto trimestre.

Tuttavia, i segnali che portano a prevedere una decelerazione dell’Eurozona nei prossimi trimestri sono sempre più numerosi. Infatti, il forte deprezzamento dell’euro, il crollo del prezzo dell’energia, la ridotta austerità fiscale e il miglioramento della fiducia stanno progressivamente perdendo la loro efficacia, mentre il contesto globale diventa sempre meno favorevole. Allo stesso tempo, i prestiti delle banche, che avevano iniziato a registrare un miglioramento da febbraio 2014, oggi stentano a crescere a un tasso annuo superiore all’1%, e in ottobre sono addirittura scesi allo 0,4%. Di sicuro, il trilione di euro di prestiti con interessi non percepiti ancora dormienti nei registri delle banche europee centra nel discorso. La Francia e l’Italia sono gli ultimi due paesi ad avere manifestato una coraggiosa volontà di riforma senza però alcun risultato degno di nota in termini di ritmo di investimento, che resta tuttora molto debole. Per sostenere le esportazioni e stimolare leggermente l’inflazione, Mario Draghi dovrà ricorrere, ancora una volta, al deprezzamento dell’euro. Ma alla luce del ciclo economico globale e delle pressioni deflazionistiche, aggravate dal rallentamento dei paesi emergenti, è ragionevole non illudersi sull’impatto di tali misure. 

Questa analisi può sembrare allarmistica o prematura. Si deve tuttavia constatare che a sette anni dalla grande crisi del 2008, le mosse delle Banche Centrali per contrastarla sono riuscite solo a conseguire una crescita economica molto debole, mentre i rischi legati al sistema finanziario sono aumentati. Di fronte a questa discrepanza, la reazione degli investitori può essere anestetizzata ancora per un certo periodo dalla fiducia nel sostegno straordinario delle Banche Centrali. Ma il rallentamento dei paesi emergenti, insieme al tentativo di normalizzazione della politica monetaria statunitense oggi aggravano, a nostro parere, in maniera significativa, la fragilità dei mercati. Per le gestioni attive finalizzate alla preservazione del capitale oggi è giunto il momento di affermare la propria libertà nei confronti degli indici. Ciò significa ridurre il beta, cioè l’esposizione al rischio di mercato e, al contrario, ricorrere ampiamente alla generazione di alfa come driver di performance e, infine, come strumento aggiuntivo di gestione dei rischi.