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Barberis_Claudio_3
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Il primo mese dell’anno non è stato certo facile sui mercati finanziari, dove si sono visti consistenti ribassi per quasi tutte le attività rischiose. Le ragioni sono molteplici, dalle tensioni già note nei paesi emergenti, all’instabilità dei prezzi delle materie prime, fino alle più recenti preoccupazioni sull’economia americana e al rinnovato allarme sui titoli bancari in Eurozona. Tutti questi aspetti negativi sono arrivati a causare il peggior inizio d’anno da decenni probabilmente perché hanno a fattor comune una incertezza di fondo su chi e come possa intervenire a supporto di un’economia globale che cresce poco ed è in una fase di de-leveraging che andrà avanti ancora a lungo. Tra le considerazioni che si leggono più di frequente, molte sono opinioni secondo cui le banche centrali avrebbero ormai fatto tutto il possibile e che anche nei paesi emergenti lo spazio di manovra delle autorità sia limitato, considerato l’alto livello di debito aggregato (privato e pubblico).

Per completare un quadro desolante, la recente decisione della banca centrale giapponese di introdurre tassi di interesse negativi come ulteriore misura espansiva in un’economia che non si muove da venticinque anni è stata salutata con un’alzata di spalle eloquente dall’indice azionario. Siamo in una di quelle situazioni dove tornano in prima pagina strategist catastrofisti, i quali predicano il futuro collasso di un’economia mondiale che sarebbe cresciuta negli ultimi decenni più per una spinta creditizia che per un aumento reale della produttività dei fattori produttivi o dell’andamento demografico. Tassi zero, debiti pubblici e privati su livelli post-bellici nelle principali economie e banche private in seria difficoltà alimentano quindi scenari apocalittici in tanti operatori, a cui manca una chiave interpretativa in grado anche solo di immaginare un percorso di ri-normalizzazione.

È quindi con grande interesse che si leggono i recenti interventi (The case for monetary finance, IMF, 2015) e il libro di Adair Turner (Between debt and devil: money, credit, and fixing global finance, Princeton University Press, 2015) economista e uomo di istituzioni, il quale prova a raccontare la storia di questi anni di crisi, con successi e insuccessi, e soprattutto di come possa essere immaginata una via d’uscita realistica da questa confusione. Prima di entrare nel merito delle sue idee, va detto che Turner, pur essendo sotto certi punti di vista una voce alternativa, ha una formazione accademica e professionale di stampo anglosassone, ossia è cresciuto in un paese che non ha defaultato neppure dopo le costosissime guerre napoleoniche o dopo le guerre mondiali.

Il punto di vista di Turner sui passati trent’anni è elaborato, ma si può provare a riassumerlo con l’idea che una parte importante della crescita vista nelle economie sviluppate è stata dovuta ad un boom creditizio che lascia oggi macerie sotto forma di alti stock di debito, il cui servizio penalizza la crescita e causa volatilità e shock periodici sui mercati. Viene però evidenziato in senso positivo il percorso fatto dalle istituzioni politiche e monetarie in questi anni post 2008. Nelle principali economie sviluppate, la gestione della crisi nella fase di maggior emergenza ha visto una parte importante dello stock di debito passare da debitori privati a debitori pubblici. Gli Stati si sono indebitati per affrontare la recessione, salvare il sistema finanziario e sopperire a parte della domanda del settore privato. Nella fase successiva, dal 2009 in poi attraverso varie forme di quantitative easing, la situazione è evoluta con l’ingresso massiccio delle banche centrali tra i detentori di debiti pubblici. Attualmente le principali banche centrali detengono stock consistenti dei debiti pubblici statali delle principali economie sviluppate. Intervento statale e intervento delle banche centrali non hanno però ancora generato la tanto attesa ripresa dell’economia nominale, né nella forma di una crescita reale solida, né in forma di inflazione.

La causa di questo stallo risiede, secondo l’economista inglese, nell’idea che anche il QE, come i deficit fiscali, viene visto dai mercati come un semplice “prender tempo”, dal momento che prima o poi anche il debito pubblico detenuto sui bilanci delle banche centrali andrà rimborsato.  Il QE è quindi un’espansione di base monetaria, ma temporanea, che lascia intatta un’incertezza di fondo su come alla fine di tutto questi debiti verranno pagati, in assenza di una crescita che per motivi vari (demografia, calo della produttività, …) non è tale da diluire in modo naturale lo stock esistente. L’incertezza su quale sia la partita finale per il de-leveraging globale diventa quindi una delle cause maggiori della volatilità dei mercati, della mancanza di consumi, investimenti privati e del fatto che periodicamente si torna a paventare il rischio di default di uno stato o di qualche grande istituzione finanziaria.

A questo punto, parlando soprattutto del caso giapponese e con un punto di vista alternativo rispetto a quello dei suoi colleghi, Turner sostiene che vada digerita l’idea che oltre ad un certo livello lo stock di debito pubblico non è rimborsabile, neppure con le migliori intenzioni. Il continuo rinnovo di debito pubblico sul bilancio della banca centrale giapponese crea una partita di giro sostenibile anche per decenni, ma che lascia aperta l’incertezza sulla risoluzione finale del problema. La via proposta è invece quella di un dibattito volto a riconoscere la necessità di una definitiva monetizzazione di parte del debito pubblico, con la trasformazione di parte dei titoli detenuti dalla banca centrale in titoli perpetui senza interessi, trasformando il QE da misura temporanea a misura definitiva. L’implementazione (la calibrazione) di questa soluzione è tutt’altro che banale, nonché la scelta politica di percorrere questa strada. Le conseguenze di una monetizzazione permanente del debito sono un incremento della massa nominale del prodotto interno lordo, ma che si tratti di crescita reale e/o inflazione dipende appunto dallo stato di fondo dell’economia (output gap, demografia…) e dalle modalità in cui quest’iniziativa viene implementata. Le conseguenze sui mercati sarebbero legate a come quest’azione viene calibrata, spiegata e implementata; di certo verrebbe meno un clima di periodica tensione sulla sostenibilità dei debiti pubblici, sostituito da una più gestibile (sostiene Turner) incertezza sul tema dell’inflazione eventualmente generata.

Le idee di Turner sono al momento tra le più estreme sul tema del de-leveraging globale. Ha però il merito di aver proposto un meccanismo concreto di gestione definitiva del problema del deleveraging. Ha fatto emergere un dibattito sulla possibilità che forse neppure il governo più capace o la banca centrale più preparata possano gestire in maniera tradizionale un de-leveraging colossale di tale portata. Viene anche spiegato che il percorso fatto in questi anni, con la sostituzione di creditori pubblici (le banche centrali) a creditori privati, potrebbe essere stato  un percorso razionale. L’implementazione della strada proposta da Turner pone complessità enormi sul fronte politico e di implementazione, soprattutto per realtà non coese come l’Eurozona. Viene comunque portato il dibattito sui debiti pubblici su un livello nuovo.