Il Gigante dai piedi di argilla

“Ho ottenuto notizie da conversazioni private, quindi in un modo che non è normale, e ho aggiunto il mio giudizio personale e opinioni soggettive per completare la storia. Non avrei mai dovuto pubblicare l’articolo, che ha avuto un forte impatto negativo sul mercato in un momento così delicato. Non avrei dovuto farlo solo per attirare l’attenzione, causando al Paese e agli investitori una così grave perdita. Sono molto dispiaciuto (…) e voglio confessare il mio crimine”. Questa la spontanea confessione di Wang Xiaolu, giornalista per il magazine Caijing, trasmessa in diretta nazionale dagli studi della tv pubblica Cctv. La Cina aveva bisogno di trovare un colpevole per giustificare ufficialmente la crisi che il mercato mobiliare onshore affronta ormai dal 10 Giugno 2015, gli è stato dato un nome ed un volto. Non certo un caso isolato alla luce dell’annuncio dell’agenzia Nuova Cina che ha dichiarato che quasi 200 tra manager e operatori finanziari sono stati “puniti dalle autorità” per aver diffuso sul web informazioni che avrebbero determinato il crollo del 40% delle quotazioni di borsa. Oltre a Wang, nel mirino sono finiti Xu Gang, direttore della maggiore banca di investimento del Paese Citic Securities, accusato insieme ad altri manager dell’istituto di insider trading, e alcuni ex-dirigente della China Securities Regulatory Commission (omologo della Consob), e Liu Shufan, capo divisione dello stesso ente.

Lecito tentennare di fronte a quanto dipinto dai canali ufficiali noti più per il servizio di propaganda che di informazione; può l’accusa di moral hazard fugare le paure internazionali di un contagio globale causato dal rallentamento dell’economia cinese? Siamo dinnanzi ad una crisi finanziaria o ad una semplice correzione di un mercato che aveva raggiunto valori esagerati?

Prima di continuare è opportuno soffermarsi a riflettere sulla storia che ha portato l’indice azionario cinese a raggiungere velocemente la cima del dirupo – troppo velocemente - tanto che già nel primo trimestre del 2015 insistentemente si iniziava a rumoreggiare di un mercato maturo per lo scoppio di una gigantesca bolla speculativa. Fermandoci ad analizzare gli andamenti dei mercati prima del crollo saremmo rimasti ammirati dal fatto che da inizio anno l’indice Shanghai Composite registrava un guadagno pari a + 52.10 %, mentre allargando il periodo di osservazione ad un anno la variazione diventava + 148.79 %. Un’occhiata veloce al grafico comparativo sottostante bastava per cogliere lo straordinario andamento del mercato continentale cinese rispetto alle tre principali economie mondiali (Usa, Giappone, Europa). L’accelerazione è tanto forte quanto repentina.

 

 

Valutando l’andamento dell’economia reale e le stime diffuse da Bloomberg per l’anno 2015, relativamente alla crescita del PIL (linea blu), troviamo difficile vedere una correllazione tra la fase macroeconomica (fine 2014-inizio 2015) e la crescita registrata in questi mesi dall’indice azionario di Shanghai. Non sono arrivate particolari buone notizie (Figura 1). Anzi,  a metà maggio nel tentativo di stimolare l’economia la PBOC ha abbassato i tassi di interesse e rilassato il coefficenti di riserva obbligatoria (RRR) cinque volte negli ultimi sei mesi. La frenata del Pil al 7% nel primo trimestre del 2015 disegna il peggior risultato trimestrale dall'inizio del 2009 anche se nonostante la pressione al ribasso della crescita economica, occupazione e prezzi restano in linea con le aspettative dei mercati. Nella lettura di alcuni analisti il rallentamento del primo trimestre e dell'attività industriale (anche nel successivo) indicano che la congiuntura dell'economia cinese rimane fragile e per questo le autorità di Pechino dovranno ricorrere a nuovi stimoli. Previsione che si è rivelata corretta tanto che non solo sono stati varati nuovi pacchetti per stimolare la crescita, ma si è arrivati al punto di dover svalutare nel giro di due giorni per tre volte lo yuan (11 Agosto 2015). Credo inevitabile per un’economia ancora focalizzata sul settore delle esportazioni e contestualmente con un cambio valutario agganciato ad un dollaro statunitense destinato ad apprezzarsi.

Cos’è successo allora? Un breve riepilogo.

Il programma di apertura dei mercati noto come “Stock Connect” è stato annunciato nel novembre 2014. Fino a quel momento l’accesso al mercato era stato limitato, nel senso che gli investitori cinesi potevano unicamente investire in azioni quotate sul mercato della Cina continentale (e l’investimento estero in Cina era limitato). Di conseguenza, le imprese quotate sia sul listino di Cina continentale che su quello di Hong Kong potevano avere le stesse azioni ma prezzate in modo molto diverso.

 

Tuttavia il programma Stock Connect era inizialmente asimmetrico: se da una parte tutti gli investitori stranieri potevano ora investire sul mercato cinese onshore (soggetto a quote), dall’altra solo i privati cinesi molto abbienti potevano investire sul listino di Hong Kong. Da allora, l’Indice Onshore Shanghai Composite ha decisamente sovraperformato il mercato delle azioni H. Il 27 marzo, il programma è stato esteso per permettere ai fondi comuni cinesi (e non solo agli individui) di investire su Hong Kong. A partire da questa data, vediamo che le azioni H si sono rapidamente apprezzate e, di conseguenza, il premio sulle azioni A è sceso (Figura 2). Da questa osservazione possiamo comprendere come mai un gigante del mondo dei fondi di investimento quale Bill Gross (Janus Capital, ex PIMCO) ha pronosticato che il rally dei mercati azionari di Shanghai e Shenzen era prossimo ad esaurirsi. Un’ottima occasione per puntare sullo short selling (cosa non facile nel non apertissimo mercato azionario cinese). Così è stato, profetico o ancora una volta ci troviamo dinnanzi ad aspettative che si autorealizzano? Il culmine del tanto temuto crash è stato registrato l’8 Luglio quando approssimativamente metà delle azioni contrattate sui mercati di Shangai e Shenzen sono state sospese per eccessi di ribasso (Figura 3). Situazione che ha fatto scattare tutti i campanelli dall’allarme nelle stanze del Politburo che ha dovuto rimandare visto il contesto le IPO in programma. Quando infatti parliamo di società cinesi quotate dobbiamo fare mente locale sul fatto che si trattano principalmente di SOE, il governo ha quindi un particolare interesse nel sostenere il mercato, alimentandone paradossalmente eventuali distorsioni…che vadano ovviamente a loro vantaggio.

Figura 1: Azioni Cina VS Crescita Economica (fonte.Bloomberg)

 

Figura 2: Mercato onshore VS offshore

Figura 3: Quanto è costato il ritracciamento del mercato azionario?

 

 

Accantonati i timori sul destino della Grecia ed implicitamente sul futuro dell’Eurozona, il mondo si è accorto bruscamente che lo scoppio della bolla speculativa azionaria cinese può rappresentare un rischio di contagio globale. Differentemente dalle aspettative il pericolo non arriva direttamente dal mondo finanziario, ma bensì dall’impatto di questa svalutazione (costata 3.4 mila miliardi di dollari) sulla platea di investitori retail nazionali. A sorpresa, rispetto alle consuetudini internazionali, a fare la parte del leone sul mercato non sono gli istituzionali e neppure gli hedhe funds stranieri (meno dell’1% delle azioni onshore). L’Economist ha stimato che circa l’80% delle transazioni è fatti da ricondurre a conti individuali cinesi.

Un’interessante correlazione la troviamo nel grafico sottostante, nel quale viene evidenziato come in concomitanza dell’accelerazione delle quotazioni sia scoppiata tra gli investitori retail, a disperata caccia di rendimenti visti i bassissimi tassi di interesse, il numero di nuovi conti per fare trading è aumentato significativamente.  Il calo delle quotazioni ha diminuito i guadagni degli investimenti fatti dal pubblico cinese o ha comportato significative perdine per coloro che sono entrati nella frenesia di inseguire la crescita dei prezzi? Quanti hanno fatto ricorso al lending per aumentare la loro potenza sui mercati? Quanta liquidità è stata prestata e finita sui mercati? E’ difficile quantificare quanti risparmi sono andati persi e valutare quindi quanto potere di consumo è stato distrutto. Rispondere a questa domanda diventerà fondamentale, perché è su questi timori che si è innescata una forte volatilità e che può comportare effetti potenzialmente devastanti in una fase in cui la crescita economica è ancora incerta.

 

I consumi cinesi hanno aiutato ad alimentare il motore di molte economie; se ragioniamo in termini di spesa in beni di lusso, turismo e proprietà queste sono andate continuamente a crescere raggiungendo importi significativi:

Turismo: i turisti cinesi spendono in terra straniera molto di più degli altri turisti. L’anno scorso 165 miliardi di dollari, in aumento del 28%. A beneficiarne sicuramente di più sono le città più celebri, basti pensare che New York ha incassato 1.4 miliardi di dollari.

Lusso: i cinesi acquistano il 12% dei beni di lusso prodotti a livello mondiale, privilegiando lo shopping all’estero. Solo l’anno scorso hanno contribuito ad assorbire il 40% dell’offerta francese.

Real Estate: da Los Angeles alla Nuova Zelanda hanno immesso miliardi di dollari per garantirsi proprietà immobiliari, pagando spesso in contanti.

Per questo motivo il crollo dei prezzi sul mercato azionario potrebbe trascinare giù, innescando a catena un effetto contagio che è difficilmente valutabile. Un rischio che non possiamo sottovalutare. Le perdite causate da una errata percezione dei prezzi ed un eccessivo ricorso al prestito per massimizzare i profitti possono causare come detto molte tensioni, in termini di mancati consumi interni e di difficoltà di privati e compagnie nel recuperare gli investimenti persi. In uno scenario di default la crisi potrebbe quindi contagiare anche il sistema finanziario cinese che come detto in un primo momento non sembrava essere sfiorato dalla correzione dei valori azionari. Questo a sua volta comprometterebbe il ruolo di motore dell’economia cinese, in primis quale principale acquirente di materie prime. Con terrore il mondo guarda ora ogni piccolo o grande dato proveniente da Pechino per valutare eventuali segnali di pericoli. E così i prezzi di quasi tutte le commodieties sono precipitate dinnanzi a quelli che giudico allarmismi ingiustificati sulla crescita cinese.

Chi ha detto che la Cina deve crescere anno dopo anno ad un tasso a due cifre? Irrealistico, oltre che irrealizzabile per un paese che sta provando compiutamente a modificare il proprio modello di crescita improntato sugli investimento a favore di uno basato sui consumi. Un cambiamento non reso semplice dalle esagerate aspettative esterne che non sembrano comprendere che il rallentamento della crescita del PIL è fisiologico per un paese che sta cercando di lasciare la strada percorsa da tutte le economie emergenti a favore di un modello più armonico che necessita però di un mercato interno più forte ed una serie di riforme sociali in termini di welfare. Il calo dei prezzi delle materie prime potrebbe quindi essere accentuato anche da questa sballata percezione.

I prossimi mesi saranno fondamentali e sapranno dirci se le manovre del governo Xi saranno in grado di portare ad un nuovo equilibrio, arrestando una caduta dei mercati azionari che potrebbe impattare su tutti noi. Il Politburo si gioca la propria credibilità, noi forse qualche palpitazione in più.