Il Dow Jones supera i 20 mila punti. Ma come sta il mercato statunitense?

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Nel mondo della finanza è risaputo che il Dow Jones non è l’indice più rappresentativo del mercato azionario americano, titolo che spetta di diritto allo S&P 500. Tuttavia, però, può considerarsi il più simbolico, soprattutto se si tiene conto del fatto che è l'indice più antico del mondo. La sua origine risale al XIX secolo, quando due giornalisti americani Charles Henry Dow e Charles Milford Bergstresser- diedero vita a un indice composto da dodici imprese industriali per cercare di misurare l'evoluzione del mercato americano. Da allora, molte cose sono cambiate. Tante quanto le imprese che sono passate dall’indice. Da quando nel 1928 passò ad essere composto da 30 compagnie, numero di titoli che attualmente lo definiscono, il Dow Jones è sempre rimasto un riferimento importante per il mercato statunitense, superando crolli, guerre mondiali e crisi di ogni genere. Qualche giorno fa, poi, ha scritto una nuova pagina nella sua storia, superando la soglia dei 20.000 punti per la prima volta dalla sua creazione.

Il Dow Jones è a livelli record e da sempre sentiamo gli esperti sconsigliare di investire nei mercati quando questi sono all’apice. Tuttavia, il fatto di aver raggiunto un tale livello proprio quando si è insediato alla Casa Bianca un nuovo presidente che promette di mettere l’America prima di ogni altra cosa, ha fatto schizzare alle stelle l’entusiasmo per il suo mercato, come dimostra il fatto che dalla vittoria del magnate l’indice è aumentato del 10%. E qui si pone la domanda: la borsa americana è un mercato caro nel quale c’è poco da guadagnare e molto da perdere o è ancora un mercato attraente per i rendimenti sugli investimenti? Per alcuni è particolarmente caro (solo il 5% delle volte ha superato i livelli attuali) e non bisogna sottovalutare la possibilità che la Fed aumenti i tassi più velocemente di quanto previsto, il che porterebbe a una correzione. Secondo altri, invece, l’azionario americano rappresenta ancora una buona opportunità d’investimento. È di questa opinione J.P. Morgan AM, società che da diversi anni ormai vede negli Stati Uniti il proprio mercato favorito. “La borsa statunitense si comporta bene purché non si parli di livelli di inflazione molto elevati, che è quando gli investitori non sono disposti a pagare PER alti. In periodi nei quali si viene da livelli di inflazione piuttosto bassi, come adesso, i PER resistono ancora”, dicono dall’entità.

Come fare però a sapere se i titoli azionari statunitensi sono scambiati a buon mercato o meno? Per cercare di dare una risposta, abbiamo analizzato il mercato in questione prendendo come riferimento sette ratio, multipli che permettono all’investitore di stimare obiettivamente a che livelli si trova attualmente la più grande borsa di titoli del mondo. Per farlo, non abbiamo selezionato il Dow Jones ma lo S&P 500, per i motivi esposti in precedenza.

Il rapporto più conosciuto dagli investitori è il PER (rapporto prezzo/utili). Esso mostra che la borsa americana attualmente capitalizza 25,7 volte. La media degli ultimi dieci anni è di 13,8 volte e quella degli ultimi 25 anni di 15,7 volte. Considerando quest’unico dato, non ci sarebbe alcun dubbio sul fatto che gli Stati Uniti stiano quotando ben al di sopra della loro media storica. Lo stesso vale se si analizza il CAPE di Shiller, rapporto che misura la relazione tra il prezzo attuale dell'indice e il profitto netto reale medio delle imprese che ne hanno fatto parte negli ultimi dieci anni. Qui si nota che è attualmente capitalizzato 28,4 volte, un livello superiore alle 22,9 volte della media degli ultimi dieci e 25 anni (25,4 volte). Pertanto, da un punto di vista dell'analisi di entrambi i multipli, non vi è dubbio che il mercato statunitense stia quotando a livelli più cari rispetto alla sua media storica.

Tuttavia, ci sono altri rapporti che bisogna prendere in considerazione per procedere a un’analisi più approfondita. I più conosciuti sono il Price to book e il Price to cash flow. Il primo misura il prezzo al quale la società è quotata rispetto al suo valore contabile e, applicato allo S&P 500, mostra che attualmente capitalizza 2.94 volte. In questo caso, se si confrontasse con la sua media a dieci anni (2,4 volte), la borsa statunitense starebbe quotando al di sopra, ma allo stesso livello della media a 25 anni (2,9 volte). Per quanto riguarda il Price to cash flow, che misura il prezzo di quotazione del mercato rispetto ai flussi di cassa generati dalle compagnie che compongono l'indice, esso mostrerebbe una infraponderazione del mercato americano (attualmente capitalizzato 8,16 volte rispetto alle 9,7 volte della media a dieci anni e alle 11,3 della media a 25 anni).

Se si analizza il dividend yield dello S&P 500, attualmente esso è dell’1,99%, praticamente in linea con la sua media storica a dieci anni (2%) e leggermente al di sotto della media a 25 anni (2,1%). Dal canto suo, il Real Earnings Yield dell’indice americano, che misura l'utile per azione degli ultimi 12 mesi rispetto al prezzo di quotazione della compagnia in borsa, esso si trova in questo momento al 3,88%. Rispetto alla sua media storica a dieci anni è basso (4,5%) ma se confrontato con la sua media nel corso degli ultimi 25 anni, invece, è alto (3%). A voi le conclusioni.