Franco (UBI Pramerica): Il rischio a breve? Il superdollaro

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L’elezione del presidente degli Stati Uniti, il referendum in Italia, la Brexit, le politiche monetarie delle banche centrali e, soprattutto, il ritorno dell’inflazione: sono questi i principali temi sul tavolo che nei prossimi mesi sembrano focalizzare l’attenzione degli investitori. Ma quali saranno gli impatti di tanta posta in gioco? Secondo Emilio Franco, vice direttore generale e responsabile degli investimenti di UBI Pramerica SGR, "già dall’inizio dell’estate, si è assistito sul fronte macro a una contenuta riaccelerazione della crescita, per lo più legata algida ripresa della produzione industriale, specialmente in USA e Asia, dopo alcuni trimestri di quasi-recessione manifatturiera. Negli USA, in particolare, è dipeso dalla necessità per le aziende di ricostituire i magazzini e dal venir meno degli effetti negativi generati dal rafforzamento del dollaro, la discesa delle materie prime e la debolezza della spesa per investimenti degli ultimi 12 mesi".

Anche sul fronte dell’inflazione globale, almeno quella headline, inclusiva cioè delle componenti più volatili, secondo l'esperto "si è assistito all’avvio di una prospettica moderata ripartenza dell’inflazione, essenzialmente legata al progressivo venir meno degli effetti base generati dalla discesa delle materie prime e del petrolio in particolare, a partire dalla seconda metà del 2015.

Il contesto generale si è andato progressivamente evolvendo nella direzione di una crescente aspettativa di reflazione, ripartenza del tasso di crescita nominale del Pil, mondiale e americano in particolare, anche alla luce di una conferma della tenuta ciclica cinese, di una sorprendente solidità macro in Eurozona, nonostante i temuti rischi legati a Brexit, e di una riaccelerazione del Giappone, in un quadro di banche centrali sempre molto accomodanti e reattive in caso di aumento dei rischi di down side all’attività economica.

Lo sviluppo del Pil in termini nominali è molto importante, perché è correlato in modo positivo alla crescita degli utili aziendali e questi ultimi sono altamente correlati a loro volta al capex delle imprese, voce della domanda aggregata e driver di medio lungo termine della crescita della produttività".

Gli investitori si sono mediamente trovati non posizionati per un contesto così impostato…

Esatto. Il ciclo in cui viviamo, iniziato nel secondo trimestre del 2009, è stato caratterizzato da bassa crescita rispetto ai precedenti storici e inflazione compressa, spesso pronta a flirtare con la deflazione, Il connubio nefasto di crollo delle commodity, forza del dollaro, crisi del settore bancario in Europa ha poi contribuito a mettere sotto pressione gli utili aziendali, i mercati emergenti e in generale i mercati azionari, con l’eccezione di quello USA, che però è rimato sui massimi senza più salire in termini assoluti per oltre 15 mesi. I vincitori sono state le obbligazioni dei paesi considerati più sicuri, USA e Germania in primis, con un contagio in positivo sul credito, da noi peraltro supportato anche dagli acquisti della Bce, in un quadro generale di bassi default,  tassi ai minimi storici e disperata ricerca di rendimento. Negli ultimi 18 mesi, più volte gli investitori hanno temuto che fosse arrivata la fine del ciclo macro e dei mercati. Lo shock al ribasso sarebbe dovuto essere di tipo deflazionistico, intonato cioè con la stagnazione che ha caratterizzato il post-Lehman. Ma la recessione in USA non è arrivata, così come hard landing in Cina o il crollo dei paesi emergenti. Eppure queste paure sono state protagoniste delle price action dall’estate del 2015.

La virata verso la reflazione ha attivato sui mercati da luglio delle rotazioni regionali, settoriali sempre più rischiose. E ora?

Abbiamo iniziato ad assistere a un rialzo dei rendimenti, un irripidimento delle curve, alla sovra performance dei mercati azionari, in particolare Giappone e EM. A livello settoriale, le banche hanno iniziato a battere gli indici, così come energy e material, il value ha ripreso terreno sul growth, le small cap hanno ricominciato a sovraperformare le large. Su questo terreno fertile ha fatto irruzione l’inattesa vittoria elettorale di Trump. I mercati sono stati improvvisamente costretti ad approfondire i contenuti del programma elettorale del neo-presidente. E hanno dovuto prendere atto che i contenuti fiscali del programma, meno tasse per persone fisiche e imprese, e più spesa per infrastrutture, così come le possibili iniziative di deregulation potrebbero essere un elemento cruciale di consolidamento di quello scenario reflazionistico appena agli albori. La reflazione favorisce gli asset più rischiosi, l’equity in particolare, a danno delle obbligazioni governative. Favorisce le commodity e tutte le aree e i settori ad alta leva operativa.

Qual è il rischio principale?

Che il processo in atto diventi disordinato, con un’eccessiva risalita dei rendimenti in USA (e non solo) e un massiccio rafforzamento del dollaro in breve termine. Tali fenomeni potrebbero produrre un restringimento delle condizioni finanziarie tale da minacciare le prospettive di crescita e il quadro potrebbe virare da quello di una virtuosa reflazione a quello di una dannosa stagflazione. L’Eurozona è purtroppo frenata in questa potenziale ripartenza dagli elevati rischi politici, connessi all’intenso calendario elettorale dei prossimi 12 mesi. Il timore, specialmente del mondo anglosassone, è che dopo le imprevedibili sorprese di Brexit e Trump, si possa profilare la vittoria di qualche movimento populista e anti-euro in uno dei paesi chiave, con conseguenze imprevedibili. A corollario, la critica situazione delle banche in qualche paese dell’Unione non incentiva ad assumere una visione più costruttiva. Il posizionamento degli investitori, però, non è certo affollato e dollaro forte, dinamica tendenziale degli utili e valutazioni sono di supporto sui mercati azionari, a patto, come pensiamo, cha la Bce continui nelle sue generose politiche monetarie.

Come state muovendo i portafogli?

Nel breve, sebbene pensiamo che sia probabile la prevalenza nelle azioni della nuova amministrazione USA dei contenuti fiscali e di deregulation reflazionistici, i rischi ci sono. Un’eventuale disordinata risalita di dollaro e rendimenti in un periodo concentrato (per effetto di premi per il rischio più elevati o per un unwinding caotico di posizioni sovraffollate consolidatesi negli ultimi anni) potrebbero rappresentare un pericoloso restringimento delle condizioni finanziarie, non solo statunitensi, tale da causare potenzialmente uno shock macro al ribasso sulla crescita, anche se la prima reazione dei mercati appare costruttiva ed ottimistica. La dinamica che appare oggi probabile anche in scenari diversi, quello benigno della reflazione e quello negativo della stagflazione, è quella di un’inflazione negli USA in tendenziale risalita. Il trend è già in atto e politiche fiscali di natura espansiva andrebbero a interagire potenziandone gli effetti. Dall’altra parte, se prevalesse l’approccio protezionistico, ci sarebbe comunque un aumento dell’inflazione, ma con equilibri macro sub ottimali; a parità di output prodotto si genererebbe un maggiore livello di inflazione.

Quali asset class evidenziano sovra performance in questo scenario?

Le commodity, i mercati azionari e gli asset reali, mentre sono destinate a soffrire le obbligazioni governative (che soffrirebbero peraltro anche in uno scenario di rischio di stagflazione). Le implicazioni di medio lungo termine che una reflazione generata da espansione fiscale ed eventualmente da alcune misure di natura protezionistica potrebbero avere sul ciclo economico americano e sulla Fed sono molto importanti. In pratica, dopo una prima fase di incertezza, si potrebbe generare una ri-accelerazione del ciclo e una ripresa significativa dell’inflazione che porti la Fed ad alzare i tassi in maniera più marcata, di quanto oggi scontato, ma probabilmente nella seconda parte del 2018, dopo che la Banca centrale abbia ottenuto il desiderato overshooting dell’inflazione al di sopra del target del 2% e una auspicata riduzione della sotto-occupazione. All’interno di uno scenario reflazionistico, è probabile un rafforzamento del dollaro, a maggior ragione se la Fed dovesse, nel medio termine, diventare meno dovish. Nel breve termine, invece, una deriva protezionistica rappresenterebbe un fattore di indebolimento sulla valuta statunitense.

E per quanto riguarda il mondo obbligazionario?

È corretto mantenere un’esposizione di duration ridotta rispetto ai benchmark. Le curve dei tassi, specialmente quella americana, è probabile che continuino a fare steepening. L’evidenza empirica degli ultimi 35 anni  mostra che gli shock inflazionistici tendono ad essere globali:  è pertanto assai probabile che tale dinamica si propaghi al di fuori degli USA. Per la stessa ragione, la dinamica dei tassi a medio lungo termine è estremamente correlata fra i vari Paesi; in sostanza è molto improbabile che vi sia un decoupling assoluto fra i livelli di rendimento dei Treasury e i livelli dei rendimenti nei principali paesi sviluppati. In conclusione, il mantenimento di una duration più corta sui tassi core e di un posizionamento per sfruttare un irripidimento della curva dovrebbe rappresentare una buona strategia. Nel mondo del credito, la reflazione favorisce la componente ad alto rendimento a scapito di quella ad alto merito di credito, per la quale il cuscinetto offerto dagli spread per assorbire il rialzo dei tassi di riferimento è assai più ridotto di quanto non valga per l’high yield.