Europa, la volatilità ha un prezzo

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foto: autor ruurmo, Flickr, creative commons

Le elezioni britanniche hanno mostrato quanto sono premiati esiti stabili del voto. Mentre troppa poca importanza è stata data a questa parola in Italia e in Europa. Gli scossoni che si ricevono ogni volta che arrivano notizie sul fronte del salvataggio Grecia ne sono una prova. Così, a fronte di risultati buoni (venerdì scorso l’Europa ha presentato dati con un tasso di occupazioni in crescita), l’Europa è malata di volatilità. Sì, c’è parecchia apprensione sui mercati finanziari europei e anche in senso globale tanto che, di recente, le oscillazioni dei tassi dei titoli pubblici a lungo termine sono state forti. Eppure è bene considerare che i dati di previsione macroeconomica per i prossimi 18 mesi sono positivi, e soprattutto nel vecchio continente permane un elemento sostanziale, ovvero l’iniziativa ultra espansiva di Quantitative Easing della BCE, partita a marzo e che rimarrà aperta fino al settembre 2016.

E quindi quali sono le perplessità? 

In Europa, in primo luogo, c’è stato l’ottimo risultato in questa prima parte dell’anno dove gli indici azionari hanno surclassato tutti gli altri mercati. Straordinaria è stata inoltre la svalutazione dell’euro che ha dato respiro alle esportazioni, mentre il prezzo contenuto del petrolio ha compensato la partita delle importazioni. Il fatto è che dietro l’angolo spunta un tema chiaro a tutti: il cambiamento di scenario nella politica monetaria statunitense. “E’ il momento di tornare verso una situazione monetaria ‘normale’, anche se la mancanza di supporto delle banche centrali creerà qualche turbolenza sui mercati finanziari”: questo è quanto viene condiviso in questi giorni nei comitati di investimento.

Proprio su questa discussione è giustificato l’andamento del rendimento del titolo governativo decennale tedesco…

Sì, il Bund in poche sedute tra fine aprile e inizio maggio, è passato da 0,05% a 0,60% lasciando perplessi i gestori obbligazionari. Eppure se guardiamo solo a dodici mesi indietro il rendimento era dell’1,5%! Secondo gli analisti obbligazionari l’offerta di nuove obbligazioni rimane comunque limitata rispetto alla sola domanda istituzionale, permettendo così un assestamento più riequilibrato.

Rimane invece il tema sul quando la Fed agirà? 

Il consensus sposta la data del primo rialzo almeno a dopo l’estate, in realtà saranno i dati macroeconomici a dettare la tabella di marcia, come precisato dalla Presidente della FED Janet Yellen nelle ultime conferenze stampa. Dopo la doccia fredda del PIL del primo trimestre 2015, fermatosi ad un risicato + 0,2% rispetto ad attese di + 1%, gli economisti si stanno sbilanciando nella convinzione che il dato potrebbe essere rivisto ancora al ribasso. Gli operatori di mercato rimangono comunque prudenti; secondo gli strategist di portafoglio statunitensi il momento del rialzo è maturo e lo dimostrano i dati del mercato del lavoro e l’inflazione. L’uscita dalla politica ZIRP (zero interest rate policy) è necessaria soprattutto per due ragioni, la prima è quella di ‘ricaricare’ gli strumenti monetari in previsione di una prossima discesa del ciclo economico e la seconda di evitare il rigonfiamento di una bolla finanziaria, figlia di un lungo periodo di liquidità a buon mercato, con valutazioni che si distanzierebbero dall’economia reale.

Quale sarà l’impatto sui mercati?

Ci sarà, ma sarà legato soprattutto a un aumento della volatilità. Le valutazioni degli asset finanziari dovranno trovare nuovi equilibri tenendo conto di fattori quali l’inflazione e la crescita degli utili aziendali, due variabili che non sembrano mostrare problemi al momento. La maggiore preoccupazione è legata al fatto che la correlazione tra le due macro classi di attivo (azionario e obbligazionario) è aumentata e l’impatto potrebbe coinvolgere contemporaneamente i due mercati. Una strategia molto dinamica con un orientamento difensivo/offensivo potrebbe essere utile a superare l’incertezza di questo periodo di cambiamento.