Debito emergente, cosa aspettarsi dopo il rally del primo semestre?

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Wok, Flickr, Creative Commons

Dopo gli ottimi rendimenti registrati dal debito emergente nel primo semestre del 2017 è lecito chiedersi cosa accadrà nella seconda metà dell’anno. Ne abbiamo parlato con due specialisti in materia: BlackRock, che offre il BSF Emerging Markets Flexi Dynamic, il BlackRock Emerging Markets Bond Fund (entrambi con rating  Consistente Funds  People) e il BlackRock Emerging Markets Local Currency Bond, e Pictet AM, che propone il Pictet Global Emerging Debt (fondo con rating Blockbuster e Consistente Funds People), il Pictet Emerging Local Currency Debt (con rating Blockbuster) e il Pictet Short Term Emerging Corporate Bonds.

Per Pablo Goldberg, portfolio manager e senior strategist dell’Emerging market debt team, e Sergio Trigo Paz, head of emerging markets portfolio management di BlackRock, la seconda metà dell’anno sarà più ‘modesta’ in termini di rendimento, soprattutto se si considera la divergenza in materia di politica monetaria. “La Fed sta inasprendo la sua politica mentre altre importanti Banche centrali si mantengono accomodanti. Questo avrà inevitabilmente dei grandi effetti sulla duration e sulle valute emergenti. Dal momento che i prezzi del mercato mettono in dubbio la presa di posizione dell’autorità monetaria statunitense, questo distacco potrebbe generare più volatilità nel secondo trimestre”, prevedono gli esperti.

Secondo questi ultimi, gli ingenti afflussi verso i prodotti di debito emergente hanno fatto sì che le vendite massime si trasformassero in buone opportunità di acquisto – approfittando del crollo dei prezzi - nel primo semestre del 2017. “Ci aspettiamo che tali flussi calino lievemente e crediamo che, più avanti, il valore relativo sarà un catalizzazore più importante del rendimento”, affermano. L’opinione di Goldberg e di Trigo Paz è che il rendimento del debito emergente si collocherà più o meno a livello delle cedole man mano che la fiducia del mercato di muoverà, spinta dalle aspettative di ripresa economica e dal timore di un rallentamento. “Diamo priorità al debito pubblico denominato in valuta forte o al debito corporate con una duration inferiore, dato che il dollaro potrebbe riapprezzarsi in qualunque di questi contesti”.

I due esperti raccomandano agli investitori di pensare seriamente a un cambiamento di strategia da passiva ad attiva per poter realizzare un’allocation più flessibile verso i segmenti di qualità del debito emergente denominato in valuta forte e in valuta locale, con una gestione dinamica della duration per adattarsi alle variazioni nella curva statunitense e all’apprezzamento del dollaro.

La visione di Pictet AM su questo segmento del mercato è leggermente più positiva. Luca Paolini, chief stratetegist dell’entità svizzera, ritiene che attualmente, e data una prospettiva economica relativamente stabile, una tenue inflazione e rendimenti attraenti, il debito dei mercati emergenti offre un premio per il rischio interessante. E l’esperto arricchisce le sue proiezioni con qualche dato. “Nei prossimi cinque anni, il debito in valuta locale potrebbe fornire un rendimento dell’8,1% annualizzato, del 3,3% in valuta forte (dollaro) mentre l’indice JPM GBI di debito dei governi sviluppati in dollari circa l’1,7%. Il portafoglio 80% obbligazioni dei Paesi sviluppati e 20% dei mercati emergenti in valuta locale e valuta forte (senza copertura) può generare un rendimento del 2,5% in questo periodo, rispetto a un 1,7% del portafoglio di debito dei Paesi sviluppati”, prevede l’esperto.

Paolini ricorda anche che bisogna considerare che si parte da rendimenti molto bassi nel debito dei mercati sviluppati. “Sono aumentati dall’estate scorsa, soprattutto dopo le elezioni presidenziali negli USA e la previsione di un maggior stimolo alla crescita economica, ma sono ancora vicino alla quinta parte dell’indice JPM GBI. Quasi dieci miliardi di dollari mostrano rendimenti a scadenza negativi. Queste valutazioni così alte si trovano ad affrontare diverse difficoltà con la ripresa ciclica. Infatti, la crescenti pressioni inflazionistiche nel mondo sviluppato saranno un problema”.

“L’inflazione – nonostante i massimi del petrolio – deve aumentare man mano che la crescita globale si sincronizza e il commercio internazionale si riprende. Con un mercato del lavoro negli USA che ha livelli di disoccupazione minimi, è prevedibile un maggiore inasprimento della politica monetaria della FED e l’Eurozona sembra che si stia riprendendo dai postumi della crisi del 2011. In più, il Giappone cresce in modo stabile. Di modo che, dopo anni di QE e nonostante la volontà delle Banche centrali di sostenere tassi di inflazione più elevati rispetto al passato, è prevedibile che aumentino le pressioni inflazionistiche”, spiega. In questo scenario, Paolini crede che le economie emergenti mostrino segni di stabilizzazione.

“Tra cinque anni ci aspettiamo che i prezzi al consumo nelle economie sviluppate aumentino fino al 2,1% dallo 0,7% del 2016, un dato che negli emergenti potrebbe però passare dal 3,7 al 3,5%. Inoltre, il PIL reale delle economie emergenti può aumentare un 4,5% annualmente nei prossimi cinque anni rispetto all’1,6% dei Paesi sviluppati. A questo, bisogna aggiungere le riforme, compreso il cambiamento verso politiche orientate al mercato. Un buon esempio è l’India, dove il primo ministro ha implementato misure di assoluta intransigenza nei confronti della corruzione e volte alla semplificazione fiscale, il che per quest’economia potrebbe voler dire spianare la strada verso il raggiungimento del suo pieno potenziale. Ovviamente ci sono delle eccezioni, come il Brasile, scosso da un nuovo scandalo di corruzione politica, o la Turchia, dove il cambiamento autocratico può fornire appoggio alla sua economia nel breve termine ma a discapito della stabilità nel lungo periodo”, conclude Paolini.